Uno più uno fa uno. La lettura del nuovo lavoro di Valentina Casadei.

“Uno più uno fa uno” è la nuova raccolta  di Valentina Casadei, un  lavoro poetico diviso in netta maniera in due parti, slegate l’una dall’altra dalle diverse scelte stilistiche e metriche, di cui la seconda è quella che emerge e convince. Il “Racconto poetico Tu e Io” è una canzone libera che si immerge in un ritmo interiore dedicato all’amore. Amore che ispira una lunga sequenza di canto in immagini quotidiane di un mondo privato, in cui esso si riversa senza mai trovarne riposo e ricchezza. I versi s’incarnano in ossimori di  immagini veloci e lente, conducono nello sfumato dei pensieri e del “sentire”, lasciandosi accompagnare nelle dimore esteriori ed interiori a cui l’amore conduce, non chiedendo giudizi ma tempo e passione,  per plasmare  due vecchi amanti in amanti assoluti. Delle strofe voce intima e voci altre, ma solo a tratti, tra immagini che si ripetono spesso,  perché l’amore è anche abitudine, certi amori cantano l’insoddisfazione di non essere amata abbastanza.
Ti vedevo partire\Verso il tuo giorno migliore.\E qui,\ il mio giorno peggiore\Mi pregava di concedergli una tregua.\Controllavo il telefono, \Cercavo prove del tuo amore.\ Come il cane da tartufo nel bosco,\Correvo nella camera da letto\E, nel letto disfatto\Cercavo indizi che tu avessi pensato a me\Per quella notte\Lontani.”
La forza si genera dalla conservazione dell’ideale, assoluto e sofferto, dell’amore come dialogo continuo con l’altro, che riduce le sue battute, che leva spazio all’eccesso di desiderio vivendo, “rispondendo a tutto” senza “chiedere nulla” dell’altro, senza conoscere la musica dell’assoluto vivere nell’amore assoluto:
Non conoscevi le canzoni,\ Io si\ Eri bloccato:\Sembravi una statua che si schiude\E nell’eternità della statua\Trovavo il nostro amore\.”. Ma l’amato non è un “opposto” come spiegava Hegel. Nell’Altro che chiamiamo amore “noi vediamo solo noi stessi e tuttavia non è noi: miracolo che non siamo in grado di capire”. E a questo miracolo non si rinuncia. Per questo miracolo laico si lotta, ci si concentra su uno stesso pensiero, su una stessa riga, continuamente, si “cerca(no) pupille e intenzioni”. E, tutto intorno, gli altri appaiono come epifanie lontane o alienazioni dolorose, “Facce vecchie \Del passato\Compagni di scuola\Amici di famiglia\,” colleghe, uffici, anche il mare dove scappare mentre il lungo schema dei versi liberi avvolge e scioglie il sentire dei pensieri, il quotidiano lavorare, caminare, perfino fuggire, per ritrovare la mappa di se stessi ed attendere la fine della guerra. “Un giorno\Suonavi al campanello\Di casa di mia madre\E, con un pacco di fragole in mano\Mi dicevi:\-Distruggiamo quel muro”.

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Dalla raccolta

Uno più uno fa uno

(c) Valentina Casadei. 

***

Al balcone
Avevo inviato lettere in
Indonesia
Mongolia
Spagna
Nuova Zelanda
Francia
Irlanda
Un destinatario della lettera per la Spagna
si chiamava Guillermo,
Come mio nonno,
Guglielmo.
Ritrovavo così,
A mia insaputa,
Un altro mattone
Che mi apparteneva,
Che mi costituiva.
La mia dimora,
Piano piano,
Prendeva forma.

Arrivata a casa
Percorrevo i sei piani di scale.
L’ascensore faceva troppo rumore:
Ti volevo impreparato al mio arrivo.
Volevo entrare
E trovarti,
Spoglio,
Ad aspettarmi
Per capire come esisti
Quando io non sono con te.

***

Tu mi guardavi dimenarmi,
Placida,
Con una forsennata voglia
Di dimostrarti tutte le danze che avrei voluto ballare con te.
Non conoscevi le canzoni,
Io si.
Eri bloccato:
Sembravi una statua che si schiude
E nell’eternità della statua
Trovavo il nostro amore.

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GLI ALBERI DIRIMPETTO – lettura della raccolta inedita di Rachele Fanti, seconda classificata al premio Giorgi 2018

GLI ALBERI DIRIMPETTO
Note di lettura di S. Sambiase edite sul numero speciale de Le Voci della Luna dedicato al Premio Renato Giorgi 2018.

“Testare il tempo\con l’entusiasmo \di una pianta in vaso\quando guarda il prato sotto\e gli alberi dirimpetto”. Il testare del tempo, la semiologia della memoria. Quel raccogliere e riordinare i segni del tempo per affidarli al racconto poetico e alla “restituzione del senso”. Nella raccolta di Rachele Fanti i capitoli scorrono à l’envers, mentre attraversano spazi quotidiani faticosi alla ricerca struggente di una “variazione lirica”, che sparga amore e luce a maniche larghe, perché l’amore che lega e pacifica è lontano. Il viaggio scorre dall’oggi all’eri su versi brevi affiancati da versi lunghi, su parole sorde che sopravvivano a quelle tenui e fanno abito e referto di una negazione imposta dalle assenze. Manca l’amato, il padre, il figlio e se ne canta il bisogno, dal centro di una città, di una casa, in una stagione che non smette di essere fredda e faticosa nel suo vivere con gli occhi stretti dell’inverno. Didone 2.0. è stata abbandonata come lo si fa di questi tempi, senza nemmeno troppo impegno, sospesi, “Standby”: “Nei rimasugli dell’ozio\io e te\finiremo per incontrare spesso \chi non sente male\chi fa solo piacere\per affidarsi all’abbraccio dei treni\vivere il sospeso del fondo binario\comunque”, in una città che è Bologna solo per caso, persa nei riti metropolitani di ogni dove , il post aperitivo, il jazz bar dai tavolini liberty, il tardo pomeriggio al centro commerciale, l’outlet sentimentale, il Rachel point di una cartina turistica. “Non siamo appartenuti all’estate”. L’amore è un urto. Solitudine e desolazione. Delusione esistenziale. “L’amore ai tempi di Artefiera: “Una bugia ben ripiegata\dentro il primo cassetto\con l’impegno che dici di aver messo\alla tua cortesia non fa primavera”. Non c’è primavera neppure all’ora della figlia, nella seconda parte del testo poetico, ancora a ritroso. L’oggi è lontano come lontana “negli anni a venire” è la visione della figlia (di ogni figlia o figlio ormai adulto) in un futuro altrove, chilometri di spazio e di possibilità, dove i crampi dei rimpianti vivono“di ciò che non ci siamo mai detti\precisa dove non ci siamo mai amati\che non si chiamano più rimpianto\che non si gridano più lacrime”; cede il confine fra chi è stato un tempo figlia e non lo è più. La voce è dolorante, demetrica, “L’amore costante\negli abbracci scontati\serrare a sangue le mani\imprimere a mente ogni dettaglio\”. Si è madre per sempre, fin dalla soglia dell’arrivo (Nove mesi: All’alba cessava quella inquietudine tremenda\che supplicava il corpo di omettere le veglie\tardare indenne la notte), inchiodandosi i pesi “sul dorso del cuore”. Il peso della bilancia inversa, della “risposta magra” di anoressiche ombre e nuove paure, a cui risponde la forza pacata della raccolta: “Fronteggio i tuoi digiuni\con l’aria del vuoto a perdere che non tange”. Al “gioco sporco dell’inconscio”, non un solo verso lo si trova arreso: è la pazienza della piantina da vas0.
***
Canicola

di quanti ho amato
mi chiedo l’esistenza
oltre la breccia
da cui sono fuggiti
quando inciampano i sensi:
rughe nella costa
di dritte copertine,
profumo della pelle
oltraggiata dal sole,
ma c’è penombra
e libri accatastati.
il più che posso fare
è spingere la mente
dentro meandri
di non-esplorazione:
luce scarna di frigo
rubinetto di doccia,
ammazzare l’estate
e la sua costrizione.

82% cacao

Gli ho chiesto come preferisce la cioccolata.
Speravo che dicesse al latte
per non avere un’altra rispondenza
un altro buon motivo.
Metto la nostra fondente amara
nello scaffale dei casuali incroci
dove rimirarla – se vince la pigra paura –
e rammentarmi di una strada in salita
giusto dietro l’angolo del cuore,
ha il rosso delle case di Bologna
ma è di là dal valico senza variante.

Te lo dico

a g.

sono venuti
a domandare il perché

– l’ho cercato, ogni volta,
nella piega di un sorriso
che non tema le rughe
come affacciarsi al balcone
senza testare il tempo
con l’entusiasmo
di una pianta in vaso
quando guarda il prato sotto
e gli alberi dirimpetto –

a giorni torneranno
a chieder conto

se non incespicherò
nella motivazione,
soltanto allora
ti sarò fuori

L’amore ai tempi di Artefiera

finché sono settimane,
quando saranno mesi
la misura dello spazio in mezzo
parlerà al posto nostro l’inconsistenza
della pena che ci siamo dati
anche a voler ammettere il conturbamento
di reciproci bluff mentre era tempo,
una bugia ben ripiegata
dentro il primo cassetto
con l’impegno che dici di aver messo
alla tua cortesia non fa primavera.

Nono mese

All’alba cessava quella inquietudine tremenda
che supplicava il corpo di omettere le veglie
tagliare indenne la notte,
e il corpo non rispondeva.
All’alba si placavano la paura di cieco,
l’affanno del morente, la solitudine
sbarrata alle serrande, il sangue rifluiva
col passaggio del primo treno
lo start della caldaia,
e il corpo rispondeva
rotondo docile pieno
ai comandi della vestaglia.

Tua madre, circa
[Soundtrack: Yumeji’s Theme, Shigeru Umebayashi]

(ho deposto il mio segreto
dentro il cavo di un albero
di celluloide pura)
parlo la voce della donna
che ormai non sarò
sbatto nelle porte
senza prodromicità
strappo a morsi le pellicine
dopo scotto le labbra
di dentifricio alla menta
per ascoltarmi ancora
conosco gli occhi stretti
di ogni animale ma
non ne ho mai imparato
senza filo di perle per àncora
m’afferro all’orlo della gonna
che non salga il ginocchio
nemmeno quando siedo
dimentico le mete dove
ho viaggiato profonda
impasto le mani come fossi
nella mia intatta placenta
da cui riparto quotidie
per le nostre prove generali
impacchetto il presente
verso l’arcobaleno domani
questo solo rea confesso: non mancherò
(poi l’ho lasciato a coprirsi
dell’erba che verrà)

L’incubo della bilancia dell’inverso

Fronteggio i tuoi digiuni
con l’aria del vuoto a perdere che non tange
la sostanza scriminata dall’immenso
delle nostre piccole cose.
Riprendo l’ordito dei sorrisi:
sui mille volti dell’avanscoperta
campeggia la misura chiara dell’amore.

#3

sono cambiata
quando ho smesso di esigere
una spiegazione da darti
ché si vive meglio
se le frecce sull’arco
dormono sonni di gloria
basta un mazzo di picchi statistici
a rallegrare il tepore medio

restiamo questo
un capitolo chiuso in fretta
a ispirazione finita,
un tramonto nel cassetto
e buonanotte al capolavoro

.