L’anno 2020 si sta chiudendo. E’ stato dominato da paure nuove e universali. Il nuovo anno 2021 è alle porte e tutti e tutte si augurano sia diverso e sereno. In questi giorni di festa, cercheremo tutti di attendere con pazienza i giorni migliori che dovranno arrivare. E se ci sarà un po’ di tempo sereno per leggere, aggiungete anche “La gioia della neve” che vi regaliamo, insieme con l’associazione Exosphere. E’ un breve racconto d’inverno, scritto da Federica Galetto, una delle fondatrici dell’associazione e pubblicato in ebook diversi anni fa.
Ho da fare una breve premessa: quando ho chiesto a Giovanna Gentilini se volesse parlarmi un po’ di più di una sua poesia tratta dal libro “Mentre rammenti ascolta il lievito” lei, come sempre accade, ha promesso di accontentarmi e così è stato. Mi ha inviata una memoria che non posso non condividere con voi. Buona lettura.
Felice Casorati
Se penso a lei, la prima cosa che vedo sono le galline, nella cantina, attraverso la finestra, chiusa da un’inferiata, che dava sulla strada. Co, co, co….. le sento ancora mentre beccano il ”pastone”, così chiamavano i grandi la miscela di farina di granoturco e pane vecchio ammollato. Non vedo il viso, ma la vestaglietta di cotone a piccoli fiori su fondo nero, il colore della sua vedovanza, e sopra questa il grembiule da cucina , di cui teneva un lembo con la mano sinistra mentre con la destra spagliava il granoturco. Abitavamo al terzo piano di una casa di nuova costruzione, alla periferia estrema della città, e tutte la famiglie avevano una gallina, dopo la guerra.
Alla morte del nonno dovette lasciare l’appartamento al primo piano e anche la cantina; il suo viso, che non lasciava mai trasparire alcuna emozione, come se fosse rimasto ingessato dal dolore, ebbe un’espressione di disappunto e con un filo di voce : “ come faremo senza galline…”. Andò ad abitare con mia zia Marcella nell’appartamento al primo piano di fronte a quello che era stato il suo. Il nonno era morto nella primavera del 1945, ammazzato dai partigiani in un porcile, e nel giro di un anno la nonna perdette anche la casa e le galline………, un vuoto difficile da riempire. Poi nacque Rossella, mia cugina, e lei, per accudirla, si trasferì in casa del figlio minore, Giorgio, fratello di mia madre e il suo cuore, finalmente si aprì. Le morbide braccia di Rossella allontanarono i fantasmi che popolavano la sua mente. Ma questo avvenne alcuni anni dopo, quando io avevo undici anni. Prima di allora, lei, la donna più anziana della famiglia, m’ incuteva una sorta di timore; era di poche parole, anzi spesso taceva e non accennava mai ad un sorriso. Iniziai a conoscerla e, poi, ad amarla, quando, alla nascita di mio fratello Francesco, avevo nove anni, dovetti trasferirmi dal mio letto al suo. Tutte le sere, dopo aver cenato, scendevo quattro rampe di scale ed entravo nella sua stanza. La nonna toglieva lo scaldino dal letto, era novembre, ed io salivo aggrappandomi al materasso di piume dove mi accoglievano bianche e profumate lenzuola. Una bambola, che le avevano regalato il giorno del matrimonio, vestita di pizzo rosa, seduta su una sedia accanto al letto, guardava me e la nonna mentre recitavamo: Padre nostro che sei nei cieli……; una fila sgranata di preghiere : Ave Maria, Salve o Regina, Angelo di Dio….. . Terminava la litania un numero imprecisato di “ Eterno riposo” per tutti i morti e, per il nonno. Come ricompensa, per l’impegno nella preghiera, la nonna mi raccontava storie di fuochi fatui, i morti, lei diceva, che tornavano a trovare i loro cari. Io ascoltavo rapita; se chiudevo gli occhi, mi sembrava di vederle quelle fiammelle vaganti di notte nella campagna, intorno a casa, e le amavo. Non mi abbracciava, la nonna, ma io sentivo lo stesso il calore del suo corpo sdraiato accanto al mio e la sua voce carezzevole come una piuma.. Lei mi ha insegnato a non averne paura, dei morti. C’era una grande quadro, nella parete in fondo ai piedi del letto, rappresentava una bambina mentre attraversava un ponte sospeso su un dirupo, ad attenderla un angelo; mi dava un po’ di inquietudine quel dipinto,temevo che la bambina cadesse di sotto, anche adesso mi chiedo: “ sarà caduta?…..”. Quando,all’età di ottantaquattro anni, si spense, ero con lei. Il 21 di Aprile di due anni fa, in una fresca mattina di primavera, Rossella ed io andammo a riesumarne le spoglie; di lei non è rimasto che un mucchietto d’ossa e la corona del rosario. L’urna con le sue ceneri è a casa di Rossella; potevamo dividerle a metà? Lei, quasi sicuramente non avrebbe voluto. Io ce l’ho sempre vicina, nel mio cuore.
(c) Giovanna Gentilini
Il vent’uno di Aprile a primavera
(da “Mentre rammenti ascolta il lievito”
edizioni Rossopietra, 2013)
Tu non sei solo quel mucchietto d’ossa
color di terra mischiate al tuo rosario
sei la bambina
dai capelli biondi e mossi
che salta i fossi
nei campi che circondano il mulino
che il vent’uno di Aprile a primavera
raccoglie viole nei prati a Saliceta San Giuliano
dove fanciulla dai lineamenti fini
incontrasti il tuo Francesco e lo baciasti.
sei la donna
che il vent’uno di Aprile a primavera
lo vide portar via dai partigiani
con lui avevi fatto quattro figli
lo ritrovasti un anno dopo
dentro al suo cappotto
ridotto anch’egli
ad un mucchietto d’ossa
buttato insieme ad altri in una fossa
in quell’inverno di morte e di follia.
sei la nonna delle giuggiole
che mi faceva le trecce ogni mattina.
***
Mi ha insegnato a non aver paura/dei morti/la nonna
Roberto Baldini recensisce il libro Fuori Nevicano Rose Gialle
sul suo blog Scrivo Leggo
di Filippo Venturi
Sei racconti meravigliosi…
Sei storie…
Due autrici (Federica Galetto e Simonetta Sambiase) per sei storie che vi toccheranno il cuore.
Le speranze di Gwyneth, le paure di Julia, gli spiriti di Loncarneau…
E molte altre vite che s’intrecceranno in una matassa di sentimenti e desideri…
Federica Galetto è l’autrice dei racconti:
– La lettera tremula
Gwyneth, segregata in una torre, deve lottare contro l’ottusità della gente per conquistare il suo amore.
– Il pattinatore del Sund
La storia di una donna che deve sopravvivere rispettando regole rigide e assurde. E i sentimenti non amano le regole…
– Il faro di Loncarneau
Una terra che dà sul mare, il mare che accompagna ogni giornata, una ragazza che vive sola dopo la morte del padre…
Simonetta Sambiase è l’autrice dei racconti:
– Le mangrovie
– Una donna raggiunge il marito in vacanza. Una vacanza che può nascondere qualche imprevisto…
– La Catena
– Una vita da reclusa in una fabbrica, un grigiore quotidiano che tedia il cuore e l’anima…
– Le Chiavi
– Una donna e sua figlia, il frutto di un amore speciale. Un uomo che, in inverno, vedeva nevicare rose gialle…
Sei storie per sei donne, un universo al femminile che vi prenderà per mano e dipingerà le vostre giornate con colori incredibili.
Un mondo da esplorare, passioni e sentimenti che animeranno l’inchiostro nero delle pagine e vi catapulteranno all’interno delle loro storie. Una pioggia di sentimenti che vi si catenerà contro, calore e gelo che intorpidiranno la vostra anima e le doneranno molteplici sensazioni.
…. queste sei storie si sviluppano a partire da trame degne di interesse e che riescono a presentare un ampio ventaglio di situazioni e di approcci diversificati a vite particolari ma così ben rappresentate che possono destare coinvolgimento e addirittura immedesimazione in qualsiasi fascia di lettore, proprio per questo nel mio parere – personale è ovvio, ma spassionato e anche critico nel senso di assoluta non piaggeria- prevale un giudizio complessivo di apprezzamento per questa pubblicazione a due, lasciando però io ( e non potrei d’altro lato fare diversamente dovendo io dare un giudizio sull’insieme del libro) piena autonomia al lettore che si accingerà a privilegiare una o l’altra autrice , una o l’altra storia- e anche l’uno o l’altro stile- come è perfino pleonastico che io aggiunga.
Buona lettura, ce n’è ampia opportunità : è questo il mio augurio!
… un amore inaspettato e fuori da ogni regola standardizzata con il magnetico Igor ( l’unico essere che lei abbia mai conosciuto che sapeva volare, sia pure con ali invisibili, l’unico che sapeva vedere” in inverno nevicare rose gialle ” – da qui deriva l’indovinato titolo dell’e-book ) (D. Villa Balbinot)
… Ed ogni cosa pareva che seguisse il loro cammino. I dossi si abbassavano per farli passare, gli alberi si sradicavano dai loro marciapiedi, le strade si sperdevano e non c’erano molliche di pane che li riportassero a casa, ogni luogo era la loro casa, dai silenzi delle periferie alla confusione del loro passo nei vialoni del centro storico, tutto accadeva e tutto s’illuminava intorno a Lei. Che era un segno d’acqua e amava le chele invisibili dei piovaschi padani e il vigore degli abbracci sotto l’ombrello del suo uomo oscuro.
… Senza riflettere oltre aprii la porta e uscii nel buio striato della Notte Santa. E sull’angolo più esterno del filare di rose del giardino lei stava come un corvo silenzioso in attesa della preda. Allungando il passo mi diressi verso di lei con gli occhi appannati dalle lacrime e dal vento che incurante del terremoto che mi scuoteva continuava a battere tutte le cose, alzando di quando in quando nubi di polvere in finissime gocce….
“…Del resto, le sue teorie sul caos del mondo e sui rimedi per chiedere l’indulgenza e la benevolenza della buona fortuna erano personalismi che non avevano poi funzionato troppo nel corso della vita, un dato oggettivo da tener presente se fosse mai sopravvissuta”…
La prima volta che ho rotto un dente, mi teneva per mano un bel ragazzo di nome GianMaria e il mio cane, un barboncino nero dalle orecchie a punta lievemente rossastre. Avevo sbattuto contro un lungo albero di marmo, alla fine della strada, là dove si tornava indietro, verso il porto canale dove affogavano i clandestini che davano troppo fastidio ai caporali sui grandi trak americani ma anche un po’ inglesi. Bianco sul bianco, dente contro marmo, pare che il sangue che lasciai, con quello che arrivava dalla darsena artificiale, servì poi a dei consorzi agricoli per il concime chiamato “sangue di bue” non vergine, naturalmente.
La prima volta che ho curato un dente, si avvicinò una ragazza berbera, che non voleva si raccontasse che nome gli avesse dato sua madre. “E’ la mia eredità nel mondo – gridava ai venti – e nessuno mi ruberà il mio nome”. Il dente era a forma di duna appuntita, aveva la cima d’ossa tutta erosa da troppa vita. Mi diedero dell’anestetico, ma avendo quindici anni, pensai che fosse un peccato venale.
La prima volta che ho sognato un dente, mia nonna mi portò dalla curandera e piangeva lungo la strada: “mia nipote ha sognato che morirò”, gridava ai passanti. Io ero vestita di bianco, ai piedi delle espadillas morbidissime. La curandera arrivò presto e mise sulle spalle un abito di penne e piume: sembrava un mostro arrivato dalle fiamme del cielo, continuava a girare su se stessa senza fine e mormorava parole e colori. La nonna smise di vivere una mattina di settembre. Rive di fiori l’accompagnarono all’ossario. Qualcuno suonava dei tamburi. Cadevano denti e amati ricordi. Negli anni, i denti si sono scuriti e smagriti, ora sono solo ossa da mastico.
tratto da Il LETTO DI GHIACCIO: racconti inaspettati di Ferragosto.