Portatevi un rossetto. Il 10 marzo si va in piazza per celebrare il 70° anniversario del voto delle donne (attivo e passivo) in questo Paese. Due giorni prima ci sarà stata la 94° giornata internazionale della donna. Sono grandi numeri, finalmente. Si va verso la stabilizzazione sociale delle richieste di diritti civili della minoranza pensante, quella che non si è mai arresa alla diseguaglianza di umanità nelle classi sociali. Ancora oggi, le statistiche dei osservatori nazionali e internazionali presentano i danni alla qualità della vita delle donne. Gli ultimi dati sono apparsi lo scorso gennaio nel rapporto della sezione italiana dell’European Anti Poverty Network (EAPN) che fa la solita fotografia monocromatica delle differenze di genere: “Il 64% degli uomini in età attiva è occupato, questa percentuale scende al 46,6% nel caso delle donne. Se un pensionato percepisce in media 14.728 euro all’anno, una pensionata ne riceve 8.964. Inoltre, quasi il 50% delle donne lascia il lavoro alla nascita del primo figlio e solo il 18% dei bambini fino a tre anni frequenta un nido d’infanzia pubblico. Il 31,9% delle donne e il 7,9% degli uomini lavorano part-time. Se le donne dedicano 36 ore settimanali al lavoro domestico, gli uomini ne dedicano solamente 14. Paragonata al resto d’Europa, l’Italia è il paese con la più alta percentuale di famiglie monoreddito”.
Indici mancanti sono quanto tempo hanno sottratto le donne nella cura della loro salute, non solo a causa della diminuzione di reddito e\o aumento delle tariffe sanitarie, ma anche della difficoltà di trovare tempo per se stesse al di fuori della strangolante spirale lavoro con straordinario obbligato\famiglia\cura degli anziani\peggiorati tempi dei servizi della città\etc. La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, ma alla Costituente dimenticaronodi specificare “del lavoro che rispetta il lavoratore e gli consente di vivere decorosamente tutte le sue età, con metodo di misura e comparazione del benessere e della dignità di ogni cittadino e cittadina”. Queste dovrebbero essere le pari opportunità dell’esistenza da porre oggi sotto la luce della primavera marzolina dell’otto marzo. Intanto, prepariamo il rossetto per il giorno 10, c’è un flash mob da colorare.
dal libro
Il 1 febbraio 1945 un decreto di Umberto di Savoia, luogotenente del re, su proposta di De Gasperi-Togliatti, riconosce alle donne il diritto di voto. E’ la conclusione di una battaglia che dura da mezzo secolo: ancora prima del 1900 si erano infatti formati attivissimi comitati pro suffragio e l’argomento del voto alle done era occasione di accesi dibattiti sui periodici più diffusi. Generalmente contrari erano gli uomini (Compreso Benedetto Croce), con qualche eccezione come lo scrittore Marco Praga e l’economista Giustino Fortunato; ma contrarie erano molte donne, anche tra le “teste pensanti” come la docente universitaria Rina Monti e la sindacalista Argentina Altobelli.
Nel 1907 una commissione tutta maschile, nominata da Giolitti, aveva dato parere negativo sul voto alle donne, anche su quello amministrtivo di cui avevano goduto, prima dell’Unità d’Italia, le donne del Lombardo-Veneto e del Granducato di Toscana. Commentò sarcastica Anna Kuliscioff: “per poter votare il cittadino italiano deve prendere una sola precauzione: nascere maschio”. nel 1919 la Camera approvò a larga maggioranza il suffragio femminile, ma la legislatura si chiuse in anticipo, prima che il Senato potesse votare la legge. Quando due anni dopo si tornò a discuterne il clima era completamente cambiato: il fascismo era alle port e prevedeva per le donne solo raduni, aiuto nella propaganda e opere caricative.
Le italiane votano così per la prima volta il 2 giugno 1946. “Stringiamo le schede come biglietti d’amore”, scrive la giornalista Anna Garofalo. “Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio delle donne timorose di stancarsi nelle lunghe file davanti ai seggi. E molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomo e donna hanno un tono diverso, alla pari”
E’ stata una donna , Emmy Werner, a scardinare le teorie deterministiche, ed è stato Garmery a creare il termine resilienza, definendo “ per la prima volta con questo termine il processo attraverso cui determinate persone riescono a superare situazioni di disagio anche molto gravi. I successivi studi hanno ampliato il concetto, affermando che la resilienza è possibile non soltanto da parte di singole persone ma anche da gruppi e comunità” (Bianca Pileri) . Scardinare ogni stereotipo depositario di sofferenze e ingiustizie, sabotare la stasi dell’accidia verso il conformismo deterministico. Pochissime parole, ma tutte dedicate alla giornata delle donne, che è ben diversa dalla sua commercializzazione di “festa della donna”. E’ questa una giornata per evidenziare tutti gli sfavori dedicati al genere femminile, senza paura di attraversare il percorso sociale di parità (di carriera e di parità economica in primis, visto il clima di povertà che aleggia nel mondo del lavoro italiano), lasciando per un attimo fuori ogni altro fattore. Dedicato a chi ogni giorno trasforma un mondo di disagio familiare, sociale ed economico in un processo di cambiamento positivo, attraversando i fuochi di vari inferni per costruire ponti verso realtà terrene di speciale normalità ed equilibrio, e tenendo intatto il mondo, tutto sommato.
SIMIN BEHBAHANI
(detta La Leonessa, poetessa iraniana)
TI RICOSTRUIRO’ DI NUOVO, MIA PATRIA
Ti ricostruirò di nuovo, mia patria
anche con mattone della mia vita
ti appoggerò sulla colonna
colonna fatta con le mie ossa
ancora ti racconterò dei fiori
per i tuoi giovani
ancora diventeremo sangue per te
e diluvio con le nostre lacrime
Se sarò morta da cento anni
mi alzerò in piedi dalla sepoltura
per combattere i tuoi malevoli
se sono vecchia oggi
avendo possibilità di imparare
comincerò la gioventù
insieme con i giovani.
CARMEN YANEZ
(Cilena, scampata rocambolescamente alla morte dalla polizia politica di Pinochet, moglie di Luis Sepúlveda)
VIAGGIO
Di notte si inventano
corsieri di sogni.
Il corpo e l’anima
si ormeggiano facilmente
alla coda dei treni taciturni.
DONNA
Quanto hai dato donna:
secoli di luce
che non hanno riflesso le coscienze
ingoiate da abissi di silenzio.
E quanto ancora:
radici per contenere la terra
velluto d’amore
una spiga per toccare il cielo
fertili semi di coraggio
per un mondo abitato dalla guerra.
E quanto ancora.
Dai tuoi occhi
albe e nebbie,
revisione del giudizio
nella speranza dei fiori.
Piccola di piccole cose
recuperate dall’infanzia
nella scrittura dei sogni.
E quanto ancora.
Foglie che coprono il pudore dell’universo
laghi generosi di acque vergini
spessore del segreto
delle profonde radici del tuo tempo.
Quanto autunno
inondando la terra
e un colore crepuscolare
nella corteccia.
TULLIA D’ARAGONA
(Ferrarese, figlia di una cortigiana, in uno dei suoi sonetti più famosi, a Bernarndo Ochino, dove la poeta cinquecentesca si ribella contro la misoginia del riformatore cappuccino)
XXXV.
A Bernardo Ochino
Bernardo, ben potea bastarvi averne
co ‘l dolce dir, ch’a voi natura infonde,
qui dove ‘l re de fiumi ha più chiare onde,
acceso i cuori a le sante opre eterne;
che se pur sono in voi pure l’interne
voglie, e la vita al vestir corrisponde,
non uom di frale carne e d’ossa immonde,
ma sete un voi de le schiere superne.
Or le finte apparenze, e ‘l ballo, e ‘l suono,
chiesti dal tempo e da l’antica usanza,
a che così da voi vietati sono?
Non fora santità, fora arroganza
torre il libero arbitrio, il maggior dono
che Dio ne diè ne la primiera stanza.
ANGYE GAONA
(Colombiana, attivista per i diritti umani, arrestata dalla polizia e tenuta in carcere per sei mesi senza prove)
L’APPELLO
Attenzione, Signori: non c’è più casa.
Solo questa: quella che vedono e calpestano.
Non c’è più,
venite tutti a vedere.
Avvicinate orecchio e cuore alla Terra,
considerate, Signori, il peso dell’età
duecentocinquantamila anni, e guardate:
non c’è più casa.
Che cosa farete?
Presumibilmente:
siederete su le corone,
rovescerete i calcoli,
cuocerete il cancro
nei forni del governo.
Il fumo che ascende,
arrogante e rapace,
è sufficiente a dare la notizia:
la rovina è nell’aria.
Direte: la borsa, il crollo…
In quel momento sentirete:
Viene l’hums, giunge
Il muschio a fecondare
questo ovulo che galleggia!
In quel momento, Signori, vedrete:
la Terra senza artifici,
senza rivestimento né controllo,
la Terra che a suo modo vi ripeterà:
non c’è più casa,
avanzando sopra le scuse,
sopra i bilanci, sopra i guadagni,
obbligando il proprio ordine verde e celeste
a prendere la casa
e a porre ogni cosa
al suo posto.
Per non spegnere l’attenzione sulla vicenda della poeta cilena, Valeria Raimondi ha dedicato una sua composizione, che qui ospitiamo
ANGYE GAONA, COLPEVOLE DI POESIA
Avevo solo le mie parole.
Ma le mie parole fendevano il ventre molle del potere,
allora mi cucirono le labbra, mi vestirono delle loro colpe infami e dei loro abiti lerci.
Avevo solo le mie parole, leggère
ma le mie parole facevano troppo rumore, come sogni colorati, e coprivano i loro spari
quindi le imprigionarono dentro mura mute affinché altri non sognassero con me.
Avevo solo le mie parole, crude
puntate sulla loro vergogna
e le mie parole squarciavano il velo osceno,
e fu allora che tagliarono la mano che impugnava la lama.
Avevo solo le mie parole, appena nate
che si alzavano in volo nella loro fetida aria
e allora mi tolsero l’aria,
mi rinchiusero affinché respirassi la loro.
Avevo solo i miei versi, liberi,
e la mia verità si aggrappava come edera ai loro piedi piantati nel fango
e divenni dunque la più forte delle minacce
e misero a tacere me, la libertà e la poesia.
Avevo solo le mie parole innocenti, di poeta, di donna
ma poiché la poesia urla nel silenzio assordante
e come una donna può partorire figli e seppellire i morti ,
delle mie parole ebbero infine così folle paura
che fui detta “colpevole” e vollero ricacciarmele in gola.
Ma non posso ancora tacere.
Ho solo le mie parole, fatele vostre.
Perché si sappia di che stavo parlando.
Perché ho sempre detto solo ciò che da qui ho potuto vedere.
Valeria Raimondi
FADWA TUQUAN
(Palestinese, ha cantato la sofferenza del suo popolo)
SOSPIRI DAVANTI ALLO SPORTELLO DEI PERMESSI
Fermarmi sul ponte a mendicare un permesso!
Ahimè! Mendicare, sì, un permesso di attraversata!
Soffocare, perdere il fiato
nel caldo del mezzodì!
Sette ore di attesa…
Ahi! Chi ha rotto le ali del tempo?
Chi ha paralizzato le gambe al giorno?
Il caldo mi flagella la fronte
e il sudore mi colma gli occhi di sale.
Ahimè!
Migliaia di occhi
sono fissi con calorosa ansia
allo sportello dei permessi;
sono specchi di angoscia,
titoli di ansia e di pazienza.
Ahimè! Mendicare un permesso
!E la voce di un militante straniero
scoppia furiosa come uno schiaffo
sul volto della folla:
«Arabi…Disordine…Cani!
Tornate indietro!
Non venite vicino al cancello!
Indietro!…Cani!…»
Una mano sbatte con rabbia lo sportello dei permessi,
chiudendo ogni possibilità,
in fronte alla folla che preme.
Umiliata la mia umanità,
pieno di amarezza il mio cuore
e il mio sangue è tutto veleno e fuoco!
«Arabi! Disordine! Cani!»
O santa vendetta del mio popolo offeso!
Ormai ho solo da attendere,
ma il momento giungerà…
il momento della giustizia e della vendetta!
FUGA
Hai odiato la realtà della gente
e ti sei tuffata con l’immaginazione
nel mondo della fantasia;
vivi soltanto di visioni, di sogno, di ombre;
figlia della fantasia, quando esci
da questo mondo immaginario?
Svegliati, ti è bastato
questo viaggio fantastico
nel miraggio del deserto.
Tu vivi perduta nel mondo dei sogni
in un orizzonte remoto e strano
e riempi la tua anima prigioniera
del canto nostalgico e desioso dell’esule.
tu vivi con la fantasia fuori dal mondo
superando il corso delle stelle
e penetrando
nell’immensità misteriosa dell’infinito
Non appartieni a questa terra.
Perché vuoi proiettarti in alto, fuori di essa?
Ti ha forse spaventata il sangue che si sparge
sulla terra e la tirannia dei forti
che opprimono i deboli e i grandi disastri?
Ti ha spaventata la durezza della vita
e la lotta fra gli uomini?
In chiusura una piccola poesia di sostegno della poeta siciliana Laura La Sala.
Le donne Libanesi
nun vanno dall’estetista
nè dal parrucchiere
coperto è il viso
il grido è negli occhi
e il burca fino ai piedi
Le ragazze dell’Islam
non vanno in discoteca
seguono le madri,
nè conservatorio
coltivano e mangiano radici
Non cè un calendario di festività
patiscono la guerra
come la fame e il giorno,
che forse non verrà
Le donne Nigeriane
amano i loro figli
che sanno di petrolio, conflitto,
L’occidente che non è mai contento.
Sotto quel velo c’è un colpo di mortaio
e musica rok di bombe a domicilio
Distrutti dalla guerra
con il morale a terra
ora anche i bambini
si chiama assassini
con mitra e bombe a mano
questa è la loro scuola.
La donne dell’islam
Turchi Isdrailiti
Curdi Pakistani
con gli occhi nel terrore,
amano senza velo
L’ennesima discussione arriva da fra due donne e un uomo di (minimo) potere. Una dice all’altra che lei non festeggia l’Otto marzo perché non è femminista e che queste sono balle, e nel frattempo, piega una spalla verso il basso e gira l’occhio verso l’uomo, che tutto sommato, sta ascoltando. L’altra invece femminista lo è e vuole continuare ad essere\esserlo nel rumore dei suoi pensieri che variano e che sono pronti ad essere versati nella conversazione ma tacciono nel rispetto della libera scelta. Eppure anche questo non festeggiare il Woman’s Day è un luogo comune ed è ridicolmente pericoloso per il genere femminile. Che donna sceglie l’autodafé della sottovalutazione perfino in una banalissima discussione ad un bar? Eccola lì, è lei che continua a straparlare per stereotipi negativi del suo stesso genere. Eccola lì la donna che odia le donne che non sono lei, le altre con la a minuscola e spregiativa, quelle “femministe” che di abbassare le spalle per girare graziosamente il collo verso un qualsiasi uomo proprio non ci pensano a meno che l’uomo in questione non sia un gran bel pezzo di manzo. L’altra – la spregevole femminista rompicoglioni insomma – sta guardando ora l’orologio e valutando se partire a ricordare alla principessina rosa che se è lì ferma a parlare e non è chiusa a casa a far da mangiare al marito e al suocero è perché viviamo in tempi di (quasi) dignità paritaria. Altro che il silenzioso pensare della stanza per sé non siamo nemmeno nel pietismo lombrosiano delle Case del sole, siamo all’ennesima rappresentazione teatrale del tentativo di seduzione come arma di riconoscimento umano. E’ l’ennesima volta in cui una donna dimentica che se è fuori di casa in un bar in pausa pranzo da un lavoro che le è stato permesso fare con un diploma che le è stato permesso prendere con una macchina che le è stato permesso guidare che le è stato permesso l’ingresso in qualsiasi luogo voglia entrare, se non è stata abbandonata né ripudiata perché sterile, se non è stata mutilata di parte dei suoi genitali perché in questo Paese è vietato, se c’è una nuova legge che cerca di proteggerla dal finire ammazzata senza pietà da un uomo, è perché un’altra donna glielo ha regalato. Regalare è un verbo a vita persa: quello che ti do non è più mio, perdo in quello che ti do qualcosa di me stessa perché tu ti arricchisca con qualcosa di mio. Non si regala per imporre la gratitudine (come nel dramma eduardiano de “Io l’Erede”) ma per lasciare il ricordo di se. Ma certe donne non ricordano, non rispettano, predano come i peggiori accattoni del potere, come in uno stato di guerra continuo in cui il bottino è la realizzazione di un qualcosa PER SE attraverso non la strada della dignità meritocratica (una mulattiera sul Tibet forse è meno faticosa lo si sa bene e non lo si nega ) ma sul solito sentiero che porta alla stanza dell’odalisca, che del resto è sempre agevolmente frequentato da che il mondo ha visto il predominio del patriarcato. “Le donne che odiano le donne sono cattive” scrive Tiziana Maiolo andando però dura anche lei a togliersi sassi e travi dalle scarpe con altre donne. Ma se la Maiolo avesse ragione o no a mettere i panni sporchi della redazione femminile del Manifesto in un suo libro (Donne che odiano le donne) non è la forma di giudizio. La ragione è quella del mettere sul muro\al muro il disinteresse di una parte contro l’altra del genere femminile. Gli uomini fanno le guerre per occupare un unico spazio ma si coalizzano e si spalleggiano, le donne cosa fanno? “Dopo aver preso coscienza di sé è necessario prendere coscienza delle altre donne diverse da noi, magari per età, per provenienza, per classe sociale, per esperienze di vita e di pensiero – scrive sul blog Femminile Plurale Laura Capuzzo – Il disinteresse per le altre e gli altri più o meno vicini a noi che è funzionale al sistema e al suo prosperare e impedisce quella che a Paestum è stata chiamata la rivoluzione necessaria permanente. Anche per questo è indispensabile essere femminista oggi, per mantenere viva quella tensione al cambiamento che si rende possibile solo con la relazione con le altre, con il confronto, con la condivisione di pratiche, di saperi, di esperienze e di vita”. Confronto: sostantivo astratto, singolare e maschile. Come si confrontano le donne? Non è possibile quantificare né qualificare una risposta. Non è possibile utilizzare una misurazione né politica né filosofica. L’analisi comunicativa si svolgerebbe sulla “categoria femminile” con il rischio di generare dati rigidi; l’esegesi semantica è un’esagerazione ma il dato significativo sulla domanda del perché (certe) donne odiano (tutte le) donne è nella sottovalutazione del proprio ruolo sociale o nella pigrizia nell’intraprendere un cammino di autodeterminazione? Vittimismo masochistico vs incapacità personale e culturale? Ridurre in questi punti la capacità di condizionare la conoscenza del proprio Sè al di fuori del genere è una semplificazione così elementare che neppure in forma sottilissima si può accettare di dialogare: eppure se il confronto non va oltre un ruolo di maschera tradizionale allora la resistenza di questi punti non si è mai raffreddata?