Femminismo tra memoria e militanza. L’intervento alla mostra di Reggio Emilia di Gabriella Gianfelici.

 

 

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Poesie femministe al Festival della Favolosità di Reggio Emilia

 Siamo
l’unione delle cose
amalgamate
fino a quello sprazzo violetto
profumo accompagnato da mani
sorelle sulla terra
venire…..
ed ogni liquido
è un figlio nello spazio.
Ti sei fermata
e l’argento bianco profanato
lasciato dagli uomini
sulla luna
toccato
dalla lanugine di un cucciolo
imbrigliato nel vento.
Mi hai detto t’amo
e l’esplosione s’è sentita lontano
ed ora siamo capitate sul mondo
quel sogno d’altro anno
quando aspettavo
in un mondo di uomini.
Siamo

Tilde
dall’antologia “Da donna a donna
a cura di Laura Di Nola

Nel festival della Favolosità che Non Una Di Meno ha organizzato a Reggio Emilia, la domenica sera prende spazio anche la narrazione poetica attraverso la rivisitazione di testi femministi rielaborati in drammaturgia dalle attrici del laboratorio MaMiMò, Lara Sassi, Margherita Prodi, Laura Visalli e Silvia Cristofori. Non poteva essere diversa la scelta, data la specificità della narrazione dei due giorni reggiani elaborata dal movimento Nudm che negli ultimi anni ha ridato vita ad una forte campagna di mobilitazione e (ri)unito le istanze politiche e culturali del femminismo, in rete con gli altri movimenti internazionali per le azioni politiche di contrasto ai quei regimi di “patriarcato globale” che “producono e amministrano la diseguaglianza e la violenza” come ricorda Judith Butler. La poesia civile e femminista, laicamente rivendicativa dei diritti di autodeterminazione e pari dignità civile e sociale fra i sessi, non porta con sé quasi mai una pace critica, come conseguenza della sua ereditaria natura di parte della poesia femminile, costola “spinosa” del patrimonio poetico, che segue un cammino quasi parallelo in esso, fin dalle rivendicazioni e visibilità delle sue stesse “madri culturali”, come le chiama Biancamaria Frabotta, che ancora oggi soffrono di una minore equità di rappresentanza e diffusione nelle scelte critiche e nelle stesse storicizzazioni, in cui l’esame del testo (o meglio, il piacere del testo) fatica ad emergere perfino nella sua diffusione “paritaria”. La diffusione culturale non è “neutra” : è più facile reperire un’antologia tematica che un’antologia di letteratura poetica in cui i testi passino attraverso l’esistenza congiunta dei generi. Scrive Andrea Cortellessa: “Il problema non può essere di contenuti in quanto tali. Altrimenti davvero un’antologia di poeti donne non avrebbe un senso molto maggiore che una di poeti dai capelli biondi”. I contenuti, il lavorio del testo è il punto di vista in cui riconoscere un linguaggio e posizionarlo in una scala di valori ontologici, e dal “punto di vista dei problemi teorici che la discussione sulla poesia femminile apre sono pochi, oltre le donne a volerci applicare un po’ d’acume – scrive la Frabotta. Fortini, anche se molto brevemente, suggerirà una distinzione fra fondazione immaginativa del linguaggio, di origine femminile, e sistema dei valori o istituzione poetica, maschili”. Ma è il testo la partenza e l’arrivo di ogni firma, oltre il genere o dentro di esso. Gioco forza, ricordare che i grandi editori solo in piccolissima parte mettono in stampa firme poetiche femminili, e accanto ad una raccolta antologica di Amalia Rosselli o di Jolanda Insana ve ne sono migliaia di Quasimodo e decine di Zanzotto.
“Eravamo senza voce – ricorda spesso la poeta Gabriella Gianfelici – e abbiamo lottato per sanare la disfonia della storia mettendoci a lavorare per ritrovare le voci perse. Questa lotta era comune in quei collettivi femministi italiani degli anni ’60 che si interessavano di letteratura”. Il web ha dato una parziale inversione di rotta a questi silenzi, soprattutto nella diffusione di blog e riviste culturali in cui è possibile crearsi una biblioteca personale “sovraculturale”, in cui legare (o slegare) i percorsi di lettura femminile alla lettura universalistica, permettendo l’incrocio di più “direzioni” di scritture, di arricchimenti, di conoscenze. Così come i festival di poesia, diffusi e consolidati in gran parte del territorio nazionale. Da domenica, se ne aprirà un altro di incrocio , quello reggiano della Favolosità. I testi scelti dalle attrici sono in parte tratti (giustappunto) da un’antologia del 1976, “Da donna a donna”, a cura di Laura di Nola, che per scelta ideologica non riportava che i nomi di battesimo delle poete e dalla lunga cantilena “Quelle del movimento di liberazione”, testo liberamente tratto e tradotto dalla poesia francese “Les celles du mouvement des liberation des femmes “ costruito “in progress” nei collettivi d’Oltralpe dal 1970 al 1976 circa. Accanto ad essi, due poesie di femministe americane, Sandra Hochman e Jean Teppermann, entrambi scritti negli anni ’70.

festival femminista a Reggio emilia

Per avere delle informazioni più dettagliate sull’evento, NUND ha creato una pagina facebook, di facile accesso:
https://www.facebook.com/events/2484496608449199/

Bibliografia:
riferimenti in rete x Andrea Cortellessa
http://www.leparoleelecose.it/?
Biancamaria Frabotta, Letteratura al femminile, De Donato editore, bari 1980

Festival della Favolosità a Reggio Emilia. Non Una Di Meno in festa.

festival femminista a Reggio emilia

… Festeggiare la lotta significa per noi guardare senza compiacimenti ma con orgoglio a quello che, in sinergia con Centri Antiviolenza, Ni Una Meno e tutte le soggettività femministe e transfemministe attive in ogni angolo del mondo, abbiamo “mosso” agitando acque morte e risvegliando spiriti sopiti, in questi. anni di moto ondoso permanente…

 


festival femminista a Reggio Emilia

NON UNA DI MENO REGGIO EMILIA – Questioni di genere e prospettive di lotta.

 

SABATO 6 LUGLIO, a partire dalle H 17,  al CIRCOLO anarchico BERNERI, in via Don Minzoni 1/A, a Reggio Emilia, il comitato cittadino di Non Una Di meno, terrà  un’ ASSEMBLEA APERTA,  e chiunque vorrà, potrà partecipare ai temi cruciali del  movimento, che sono stati al centro delle iniziative e azioni di lotta nei quasi tre anni di vita del nostro movimento.

“Dalla presentazione di Non Una Di Meno – scrive il comitato cittadino –  e della sua breve ma già significativa storia, alle questioni del contrasto alla violenza di genere come fenomeno sistemico, pervasivo e strutturale, dello sciopero femminista globale con l’astensione rivoluzionaria dal lavoro di produzione e di riproduzione sociale, dell’intersezionalità, dell’antisessismo e antirazzismo, del transfemminismo. Dai tentativi di annullare le conquiste più significative dei movimenti femministi sul piano della legislazione e delle norme, stravolgendo le leggi in vigore e cercando di imporre trappole legislative e normative per favorire il ritorno alla famiglia e alla società patriarcale (DDL Pillon, mozioni e odg sull’interruzione volontaria di gravidanza e sull’obiezione di coscienza presentati in diversi Consigli comunali in tutta Italia, Emilia Romagna compresa…), al tema della transnazionalità del movimento e delle lotte condotte in tantissimi Paesi nel mondo con obiettivi e modalità comuni. Temi importanti e impegnativi, da approfondire e condividere con altre soggettività convergenti in vista della lunga e intensa stagione di lotta che ci attende dopo l’estate, quando saremo chiamate a dispiegare al massimo la nostra potenza trasformatrice”.

Lo status quo della clava.

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C’era il femminicidio anche quando ero piccola io ma nessuna aveva creato ancora il neologismo. Si sceglievano parole diversissime. La bussola verbale segnava la parola a seconda della difesa che si dava al carnefice per giustificarlo in tribunale e agli occhi dell’opinione pubblica. Quasi sempre si trattava di un “delitto passionale”.  Solitamente la moglie veniva uccisa  o perché il marito era geloso “assai”o perché (peggio del peggio) il marito aveva creduto di “avere le corna” . Raramente veniva uccisa una sorella o una cugina .   O forse sono io che non lo ricordo.  Oppure il casus belli è sempre e proprio  il possesso sessuale della vittima. Altre volte l’assassino pare uccidesse perché esasperato dal brutto carattere della fidanzata o della moglie, che non lo lasciava mai in pace, eccetera eccetera. I nomi delle vittime non li ricordo, perché i fatti di sangue mi spaventavano e lo fanno ancora. Ma quello che mi si è inciso a memoria è il ricordo  delle combriccole di donne, la città delle femmine dal quartiere a tutti i quartieri,   che commentando gli accaduti davano pietà alla vittima ma tutto sommato giustificavano il carnefice. Se l’era cercata, doveva starci più attenta, non doveva esasperarlo, è stata sfortunata, così va il mondo comare mia… Un mondo di donne che accettava l’omicidio come una delle possibilità insite nella vita coniugale. Almeno nella discussione sociale dei salotti, delle botteghe alimentari, dei tavolini con gli spumoni e le granite, delle panchine dei giardinetti, delle prime sdraio a righe bianche a blu delle spiagge di luglio e di agosto. Tutta quella violenza pareva potesse avere un senso perché inserita in un sistema sociale che manteneva lo status quo della clava, impermeabile ai sensi di colpa di una giustizia umana negata alle vittime. La colpa dell’assassino non era mai veramente assoluta. E la solidarietà delle donne si rinchiudeva nel gineceo della propria famiglia, le lotte di genere erano lontane. Non pareva necessario consultare i sociologhi per spiegare perché si accettava quella sorta di sindrome di Procne collettiva che negava ogni evidente sopraffazione al diritto di non essere uccisa dal delirio onnipotente di un proprio familiare. La morta ..si, faceva pena… ma vuoi mettere quanta compassione popolare c’era per quel povero giovane marito o vecchio fidanzato che doveva convivere per tutta la vita con il ricordo di quella passione così potente da averlo costretto a strozzare o sparare alla donna della sua vita? Un’imperfezione sociale dell’italietta comune, dall’ipocrisia qualunquista che zittiva e finiva la giustizia di (ogni) genere. Anche le femministe che conquistavano terreno sociale anno dopo anno, dopotutto non facevano altro che inasprire i poveri uomini e togliere loro il diritto al quieto vivere millenario. Le “femmine moderne”, che andavano a fumare in mezzo alla strada e che guidavano e che non si licenziavano dal lavoro quando si sposavano o peggio ancora ci ritornavano anche dopo essere diventate mamme, erano un modello sociale impresentabile per la cultura nazional-popolare dei musicarelli e dei principi azzurri in canottiera da ascella profonda. Pare che alcune di loro tentennassero anche nell’accettare lo ius primae fabbrica che in certi mercati del lavoro era la norma per l’assunzione di personale femminile, da Nord a Sud, segreto custodito di bocca in bocca da zie zitelle che guardavano con disprezzo l’impurezza del lavoro industriale di genere. Le “certe cose” che non si dicevano erano sconcerie non certo per chi le esercitava ma piuttosto per chi le denuciava apertamente. Cosa ci fosse nella saldatura di tutto il dna sessuofobo del Paese non fu mai trovata, né in mappa né in misura. Ma quegli anelli sono catene ancora oggi, nel confine appena superato del terzo millennio, basti pensare a quello che è successo ad una bella “ciaciona” partenopea che ha ingenuamente creduto che il suo intimo atto di fellatio ripreso dallo smartphone di quello a cui lo stava dando, potesse essere anche un altro modo di godersi la vita. Invece il machissimo idiota ha ben pensato di tramutarlo in un video pubblico che è diventato il nodo scorsoio con cui la forca degli italianissimi beoti ha ucciso la ragazza. E l’anaffettiva cultura nazional popolare, (dai video semi deficienti a certi tipi di blog fai da te che sono anche contenti di chiamarsi “Degrado virale” fino ad una delle maggiori radio private nazionali che poi si è salvata la faccia scusandosi pubblicamente) per mesi, nella totale indifferenza, ha continuato il giochino al massacro dell’autostima della ragazza. Le “femmine moderne” non le hanno fatto barriera attorno, c’è da dirlo. Quando si tocca l’incandescenza della sessualità non c’è solidarietà che tenga. C’è da aver paura sociale. Ricordo ancora che tempo fa, una quotatissima compagna femminista che portava avanti una distorta autodeterminazione del corpo femminile in una sorta di licenza o di ritorno a forme di prostituzione legale, censurò il mio pensiero contrario che interveniva sulla necessità di non porre manco per scherzo di carnevale il ritorno del dibattito e di virarlo sull’autodeterminazione al diritto all’emancipazione economica del lavoro e della parità di trattamento economico. La mia indole sindacale insomma non aveva potuto tacere, come anche la simpatia e vicinanza alle sante donne di un’associazione della mia piccola città che lottano in silenzio e con “la tigna” contro la schiavitù della tratta per scopi sessuali per ridare dignità umana alle “ultime fra le ultime”. Zac. Un taglio netto all’intervento. Zac. Una censura alla censura.  E questa stortura tutta femminista me la porto ancora dentro.  E mi fa paura. Più dei numeri che oggi verranno dati sul femminicidio di quest’anno o del prossimo. Perché dietro ai numeri, alle oscillazioni di incremento o diminuzione delle morte ammazzate, c’è ancora quello spirito ostinato ed ostile che non cede lo scettro sociale della clava. E che difficilmente andrà via anche in questa generazione, a cui però dare merito di averlo cacciato dalla tana dell’abulia della rassegnazione sociale. Che però continua a canticchiare “appena ti trovo da sola ti taglio la gola, ti tagliooo la golaaaa” o “mi hai perquisito gli occhi\e sai sono pulito\non posso uccidertiiii mai più” scritte da glorie canore nazionali senza mai chiederne ragione o scusa. Il patto generazionale è anche questo. Andare avanti verso il rispetto della dignità dell’altro. Ascoltare non solo ascoltarsi. Trasformarsi. Rivoluzionare il quotidiano per allagarlo di coraggio. Non una di meno. Andrà meglio alla prossima generazione.