L’ANTITEORIA DELLE FEMMINE – 8 marzo, poesia e resilienza

(c) Shannon Bool
(c) Shannon Bool

E’ stata una donna , Emmy Werner, a scardinare le teorie deterministiche, ed è stato Garmery a creare il termine resilienza, definendo “ per la prima volta con questo termine il processo attraverso cui determinate persone riescono a superare situazioni di disagio anche molto gravi. I successivi studi hanno ampliato il concetto, affermando che la resilienza è possibile non soltanto da parte di singole persone ma anche da gruppi e comunità” (Bianca Pileri) . Scardinare ogni stereotipo depositario di sofferenze e ingiustizie, sabotare la stasi dell’accidia verso il conformismo deterministico. Pochissime parole, ma tutte dedicate alla giornata delle donne, che è ben diversa dalla sua commercializzazione di “festa della donna”. E’ questa una giornata per evidenziare tutti gli sfavori dedicati al genere femminile, senza paura di attraversare il percorso sociale di parità (di carriera e di parità economica in primis, visto il clima di povertà che aleggia nel mondo del lavoro italiano), lasciando per un attimo fuori ogni altro fattore. Dedicato a chi ogni giorno trasforma un mondo di disagio familiare, sociale ed economico in un processo di cambiamento positivo, attraversando i fuochi di vari inferni per costruire ponti verso realtà terrene di speciale normalità ed equilibrio, e tenendo intatto il mondo, tutto sommato.

SIMIN BEHBAHANI
(detta La Leonessa, poetessa iraniana)
TI RICOSTRUIRO’ DI NUOVO, MIA PATRIA

Ti ricostruirò di nuovo, mia patria
anche con mattone della mia vita
ti appoggerò sulla colonna
colonna fatta con le mie ossa
ancora ti racconterò dei fiori
per i tuoi giovani
ancora diventeremo sangue per te
e diluvio con le nostre lacrime
Se sarò morta da cento anni
mi alzerò in piedi dalla sepoltura
per combattere i tuoi malevoli
se sono vecchia oggi
avendo possibilità di imparare
comincerò la gioventù
insieme con i giovani.

CARMEN YANEZ
(Cilena, scampata rocambolescamente alla morte dalla polizia politica di Pinochet, moglie di Luis Sepúlveda)

VIAGGIO
Di notte si inventano
corsieri di sogni.

Il corpo e l’anima
si ormeggiano facilmente
alla coda dei treni taciturni.

DONNA
Quanto hai dato donna:
secoli di luce
che non hanno riflesso le coscienze
ingoiate da abissi di silenzio.

E quanto ancora:
radici per contenere la terra
velluto d’amore
una spiga per toccare il cielo
fertili semi di coraggio
per un mondo abitato dalla guerra.

E quanto ancora.

Dai tuoi occhi
albe e nebbie,
revisione del giudizio
nella speranza dei fiori.
Piccola di piccole cose
recuperate dall’infanzia
nella scrittura dei sogni.

E quanto ancora.

Foglie che coprono il pudore dell’universo
laghi generosi di acque vergini
spessore del segreto
delle profonde radici del tuo tempo.

Quanto autunno
inondando la terra
e un colore crepuscolare
nella corteccia.

TULLIA D’ARAGONA
(Ferrarese, figlia di una cortigiana, in uno dei suoi sonetti più famosi, a Bernarndo Ochino, dove la poeta cinquecentesca si ribella contro la misoginia del riformatore cappuccino)
XXXV.
A Bernardo Ochino
Bernardo, ben potea bastarvi averne
co ‘l dolce dir, ch’a voi natura infonde,
qui dove ‘l re de fiumi ha più chiare onde,
acceso i cuori a le sante opre eterne;

che se pur sono in voi pure l’interne
voglie, e la vita al vestir corrisponde,
non uom di frale carne e d’ossa immonde,
ma sete un voi de le schiere superne.

Or le finte apparenze, e ‘l ballo, e ‘l suono,
chiesti dal tempo e da l’antica usanza,
a che così da voi vietati sono?
Non fora santità, fora arroganza
torre il libero arbitrio, il maggior dono
che Dio ne diè ne la primiera stanza.

(c Loredana D'Argenio
(c Loredana D’Argenio

ANGYE GAONA
(Colombiana, attivista per i diritti umani, arrestata dalla polizia e tenuta in carcere per sei mesi senza prove)

L’APPELLO
Attenzione, Signori: non c’è più casa.
Solo questa: quella che vedono e calpestano.
Non c’è più,
venite tutti a vedere.
Avvicinate orecchio e cuore alla Terra,
considerate, Signori, il peso dell’età
duecentocinquantamila anni, e guardate:
non c’è più casa.
Che cosa farete?
Presumibilmente:
siederete su le corone,
rovescerete i calcoli,
cuocerete il cancro
nei forni del governo.
Il fumo che ascende,
arrogante e rapace,
è sufficiente a dare la notizia:
la rovina è nell’aria.
Direte: la borsa, il crollo…
In quel momento sentirete:
Viene l’hums, giunge
Il muschio a fecondare
questo ovulo che galleggia!
In quel momento, Signori, vedrete:
la Terra senza artifici,
senza rivestimento né controllo,
la Terra che a suo modo vi ripeterà:
non c’è più casa,
avanzando sopra le scuse,
sopra i bilanci, sopra i guadagni,
obbligando il proprio ordine verde e celeste
a prendere la casa
e a porre ogni cosa
al suo posto.

Per non spegnere l’attenzione sulla vicenda della poeta cilena, Valeria Raimondi ha dedicato una sua composizione, che qui ospitiamo

ANGYE GAONA, COLPEVOLE DI POESIA

Avevo solo le mie parole.
Ma le mie parole fendevano il ventre molle del potere,
allora mi cucirono le labbra, mi vestirono delle loro colpe infami e dei loro abiti lerci.

Avevo solo le mie parole, leggère
ma le mie parole facevano troppo rumore, come sogni colorati, e coprivano i loro spari
quindi le imprigionarono dentro mura mute affinché altri non sognassero con me.

Avevo solo le mie parole, crude
puntate sulla loro vergogna
e le mie parole squarciavano il velo osceno,
e fu allora che tagliarono la mano che impugnava la lama.

Avevo solo le mie parole, appena nate
che si alzavano in volo nella loro fetida aria
e allora mi tolsero l’aria,
mi rinchiusero affinché respirassi la loro.

Avevo solo i miei versi, liberi,
e la mia verità si aggrappava come edera ai loro piedi piantati nel fango
e divenni dunque la più forte delle minacce
e misero a tacere me, la libertà e la poesia.

Avevo solo le mie parole innocenti, di poeta, di donna
ma poiché la poesia urla nel silenzio assordante
e come una donna può partorire figli e seppellire i morti ,
delle mie parole ebbero infine così folle paura
che fui detta “colpevole” e vollero ricacciarmele in gola.

Ma non posso ancora tacere.
Ho solo le mie parole, fatele vostre.
Perché si sappia di che stavo parlando.
Perché ho sempre detto solo ciò che da qui ho potuto vedere.

Valeria Raimondi

(c) Mira Hnatyshyn
(c) Mira Hnatyshyn

FADWA TUQUAN
(Palestinese, ha cantato la sofferenza del suo popolo)

SOSPIRI DAVANTI ALLO SPORTELLO DEI PERMESSI

Fermarmi sul ponte a mendicare un permesso!
Ahimè! Mendicare, sì, un permesso di attraversata!
Soffocare, perdere il fiato
nel caldo del mezzodì!
Sette ore di attesa…
Ahi! Chi ha rotto le ali del tempo?
Chi ha paralizzato le gambe al giorno?
Il caldo mi flagella la fronte
e il sudore mi colma gli occhi di sale.
Ahimè!
Migliaia di occhi
sono fissi con calorosa ansia
allo sportello dei permessi;
sono specchi di angoscia,
titoli di ansia e di pazienza.
Ahimè! Mendicare un permesso
!E la voce di un militante straniero
scoppia furiosa come uno schiaffo
sul volto della folla:
«Arabi…Disordine…Cani!
Tornate indietro!

Non venite vicino al cancello!
Indietro!…Cani!…»
Una mano sbatte con rabbia lo sportello dei permessi,
chiudendo ogni possibilità,
in fronte alla folla che preme.
Umiliata la mia umanità,
pieno di amarezza il mio cuore
e il mio sangue è tutto veleno e fuoco!
«Arabi! Disordine! Cani!»
O santa vendetta del mio popolo offeso!
Ormai ho solo da attendere,
ma il momento giungerà…
il momento della giustizia e della vendetta!
FUGA
Hai odiato la realtà della gente
e ti sei tuffata con l’immaginazione
nel mondo della fantasia;
vivi soltanto di visioni, di sogno, di ombre;
figlia della fantasia, quando esci
da questo mondo immaginario?
Svegliati, ti è bastato
questo viaggio fantastico
nel miraggio del deserto.
Tu vivi perduta nel mondo dei sogni
in un orizzonte remoto e strano
e riempi la tua anima prigioniera
del canto nostalgico e desioso dell’esule.

tu vivi con la fantasia fuori dal mondo
superando il corso delle stelle
e penetrando
nell’immensità misteriosa dell’infinito
Non appartieni a questa terra.
Perché vuoi proiettarti in alto, fuori di essa?
Ti ha forse spaventata il sangue che si sparge
sulla terra e la tirannia dei forti
che opprimono i deboli e i grandi disastri?
Ti ha spaventata la durezza della vita
e la lotta fra gli uomini?

In chiusura una piccola poesia di sostegno della poeta siciliana Laura La Sala.

Le donne Libanesi
nun vanno dall’estetista
nè dal parrucchiere
coperto è il viso
il grido è negli occhi
e il burca fino ai piedi

Le ragazze dell’Islam
non vanno in discoteca
seguono le madri,
nè conservatorio
coltivano e mangiano radici
Non cè un calendario di festività
patiscono la guerra
come la fame e il giorno,
che forse non verrà

Le donne Nigeriane
amano i loro figli
che sanno di petrolio, conflitto,
L’occidente che non è mai contento.
Sotto quel velo c’è un colpo di mortaio
e musica rok di bombe a domicilio

Distrutti dalla guerra
con il morale a terra
ora anche i bambini
si chiama assassini
con mitra e bombe a mano
questa è la loro scuola.

La donne dell’islam
Turchi Isdrailiti
Curdi Pakistani
con gli occhi nel terrore,
amano senza velo

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POESIE DEL PADRE (e con saggezza mi ha allevato…)

Ci si potrebbe chiedere, incidentalmente,

se per caso non possano essere considerati in larga misura esauriti

i compiti assolti dall‘imago  paterna a livello macroscopico .

Guido Maggioni,  Padri nei nostri tempi

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SEQUENZA AL PADRE NEL CENTENARIO DELLA SUA NASCITA

FRANCO BUFFONI
L’elicotterino
E mi chiedevo
Quante volte lo dovrò far salire su
Tirando forte il filo di plastica
Questo elicotterino
Per poi correre a raccoglierlo
Fin quasi nella neve
Perché lui pensi che sono contento
Che me l’ha regalato.
Virilità anni cinquanta
La bottega del barbiere di domenica mattina
Camicie bianche colletti barbe dure
Fumo. E quelle dita spesse
Quei colpi di tosse quei fegati
All’amaro 18 Isolabella
Al pomeriggio sulla Varesina nello stadio
Con le bestemmie gli urli le fidejussioni
Pronte per domani, lo spintone all’arbitro all’uscita
La cassiera del bar prima di cena.
Le ditte muoiono in ospedale
Le ditte muoiono in ospedale
Quando il titolare dopo trenta
Sigarette al giorno per trent’anni
Entra per controlli
E allora in processione il contabile
Col magazziniere a mezzogiorno
Vengono a riferire per qualche settimana
Poi solo le firme alla sera
E infine è la buonuscita dalla signora
Un’altra processione i figli fuori.
L’odore di mio padre
Cercavo i documenti della casa
Un antico rogito con mappa,
In una borsa chiusa da trent’anni
C’era il suo odore
In divisa da ufficiale,
Saltava fuori fresco
Mi copriva
Di amore singolare.
Nelle vacanze per tenermi occupato
– Non esisteva che leggessi tutto il giorno –
Mio padre mi mandava in magazzino
A aiutare il Giovanni.
Se c’era un lavandino da spostare
Però ci pensava il Giovanni
O le vasche da scaricare,
Io spostavo i rubinetti
E neanche sempre.
C’era dentro l’odore di cartone
E paglia umida,
Carezzavo le gabbie degli scaldabagni
Il legno ruvido.
E il Giovanni che ansimava lo guardavo.

(c) F. Buffoni, tutti i diritti riservati

(c) The Kid
(c) The Kid

OLIVE

FARRAH SARAFA

Your father,
his inheritance shed of him
like the skin of a snake.
only he cried afterward.

Walking through barren olive fields
he envisions their roots active with sprout,
alive, as they once were, with the fruit of his ancestors.

The bitter black taste of Palestinian soil
accompanied by the toasted pita-bread and melted white cheese,

he dreams
of children’s olive-like eyeballs
their sparkling gaze

like onyx,
but the dream is shot with the poke of an empty hand
a branch, fringed-ash and embroidered by greed

whose jugglers and smugglers in moan
have thrown staunch families into pleas
they sneeze
to rid of the fumes clenching their inner lung
constricted black and frightened tongue,
ambitions sullied, by ancestor’s songs unsung

life squeezed out of my grandfather’s love
he blows the ash from a branch
wind carrying it from his eyes
open eyes, lashes curled toward the heavens
he inhales their deeply embedded fragrance
buried beneath layers of activity and reactivity

from which this culture will continue to flourish.

Farrah Sarafa
© Copyright 2006

The Hedger di John Brett
The Hedger
di John Brett

MY FATHER WAS A FARMER: A BALLADE

ROBERT BURNS

My father was a farmer upon the Carrick border,
And carefully he bred me in decency and order,
He bade me act a manly part, though I had ne’er a farthing,
For without an honest manly heart, no man was worth regarding;

Then out into the world my course I did determine,
Tho’ to be rich was not my wish, yet to be great was charming,
My talents they were not the worst, nor yet my education,
Resolv’d was I at least to try to mend my situation;

In many a way, and vain essay, I courted Fortune’s favour,
Some cause unseen still stept between, to frustrate each endeavour,
Sometimes by foes I was o’erpower’d, sometimes by friends forsaken,
And when my hope was at the top, I still was worst mistaken;

Then sore harass’d and tir’d at last, with Fortune’s vain delusion,
I dropt my schemes, like idle dreams, and came to this conclusion,
The past was bad, and the future hid, its good or ill untried,
But the present hour was in my pow’r, and so I would enjoy it;

No help, nor hope, nor view had I, nor person to befriend me,
So I must toil, and sweat, and moil, and labour to sustain me,
To plough and sow, to reap and mow, my father bred me early,
For one, he said, to labour bred, was a match for Fortune fairly …

(1782)

MIO PADRE ERA UN CONTADINO (BALLATA)

Mio padre era un contadino sul confine del Carrick
e con saggezza mi ha allevato alla decenza e all’ordine
Lui mi ha detto di essere un vero uomo, sebbene non abbia mai avuto un soldo
perché senza un cuore virile e onesto, nessun uomo valeva uno sguardo.

Poi nel mondo, la mia strada ho determinato,
che essere ricco non sia il mio desiderio, sebbene esser importanti ha il suo fascino,
I miei talenti non erano il peggio e neppure la mia educazione
fui risoluto quanto meno nel cercare di migliorare la mia condizione;

Così in tanti modi e prove vane ho corteggiato la Fortuna,
Una causa persa, invisibile il suo passo fra noi, da frustrare ogni sforzo
Sopraffatto a volte da nemici, a volte abbandonato dagli amici,
E quando la mia speranza è stata al culmine, ero ancora nel peggior sbaglio;

Poi dolorante, esausto e stanco, con la vana illusione della Fortuna,
le mie difese sono cadute, come i sogni dei folli, e sono arrivato alla conclusione
il passato era in rovina, e il futuro nascosto, nel male o nel bene insicuro
è il presente ora in mio potere, e di questo ne potrò godere;

Nessun aiuto, né speranza, né considerazione, né gente per fare amicizia
quindi devo faticare e sudare, e lavorare duro e darmi da fare a sostenermi da solo
Arare e seminare, mietere e falciare, mio padre mi ha insegnato presto a farlo,
per chi – mi disse – ha l’abitudine al lavoro, la giusta fortuna si incontra….

(traduzione di S. Sambiase)

PADRE CHI SEI?

LAURA LA SALA

Sei il seme
che mi ha generato:
ma non il padre chè
ho sempre sognato

Sé sei l’affetto
le braccia protette
un tetto sicuro
il mio cuscinetto

Se sei la spalla, la consolazione:
La carezza dei giorni miei
La certezza, le radici
La mia fortezza…

Sè sei il padre padrone
il boia, la noia:
non fai parte di me!
Padre è colui che,
anche sé nelle vene
non scorre il mio sangue
Tutto ti da:
bene amore tranquillità

E non c’è seme
non c’è vena
Non c’è sostanza
Padre si nasce
non si diventa

Il padre è Padre!
E non padrone
Padre è colui che,
semina,
genera:
AMORE!…..

(c) Laura La Sala