Modena, 27 Maggio 2020
a cura de
La casa delle donne di Modena
A tre mesi esatti dal “lockdown” assistiamo, allibite e sconcertate, all’invisibilità nel discorso pubblico e nelle decisioni governative del punto di vista e dei bisogni delle donne e dell’infanzia, del diritto alla conciliazione dei tempi di vita, cura e lavoro e il diritto allo studio, che sono stati trattati con sufficienza, quando non del tutto ignorati, finendo per giocare un ruolo minore nelle agende e decisioni di chi ci governa.
Qualche segnale si sta muovendo, come le recenti linee guida della Regione Emilia Romagna per l’apertura dei centri estivi per la fascia d’età 3-17 anni che dimostrano che è possibile pensare un protocollo che tuteli la salute dei più piccoli garantendo comunque momenti di socialità.
Ma la scuola è anche altro!
Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali del nostro ordinamento democratico. La scuola è il più potente strumento di eliminazione delle diseguaglianze sociali, economiche e fisiche. In soli tre mesi di lockdown centinaia di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, sono stati esclusi di fatto dalla didattica e dalla socializzazione, perché privi di mezzi tecnologici, per le loro fragilità personali, perché la didattica a distanza non è stata in grado di sostituire il vero insegnamento basato su relazione e socializzazione.
Il compito della Politica è dare linee guida e priorità, il compito dei tecnici e delle tecniche è trovare soluzioni pratiche, che si basino su una valutazione di impatto delle misure adottate sulla vita realedi donne e uomini. La politica deve mettere la scuola in cima alle sue priorità: i tecnici e le tecniche poi ci diranno come fare scuola in sicurezza.
La riapertura dei servizi educativi 0-6 e delle scuole dovevano essere la chiave di volta dell’inaugurazione della Fase 2 e invece, oltre a non esserlo stata, non ha ricevuto nemmeno per sbaglio un cenno nel discorso pubblico tenuto nelle ore immediatamente precedenti il 4 maggio da parte del Presidente del Consiglio Conte, il quale ha sfiorato l’argomento soltanto in risposta ad una domanda posta da una giornalista. Qual è la posta in gioco? Aprire le aziende prima della scuola ha significato rinunciare alla conciliazione vita famigliare – lavoro. Sappiamo molto bene che generalmente, nell’economia di una famiglia, se serve scegliere chi deve sacrificare il proprio lavoro, è la donna a operare questa rinuncia a causa della disparità salariale e delle forti aspettative di genere – interne ed esterne – rispetto al suo ruolo di manutenzione domestica. Ignorando per scelta o per leggerezza la questione, lo Stato conta di fatto sull’idea che le donne continuino a farsi supplenti di funzioni che competono allo Stato stesso. Ma le donne sono cittadine, non ruoli, non funzioni, e pretendono che le istanze di genere vengano integrate nel dibattito pubblico e nelle soluzioni da adottare con urgenza.
Non basta, infatti, integrare le cosiddette “task force” con qualche donna esperta, facendolo in fretta e furia solo perché incalzati da una protesta parlamentare e civile, per saper includere fattivamente la prospettiva di genere.
Il risultato di queste “task force” mono-genere —e del Governo, nella persona della Ministra all’Istruzione— è stato partorire un modello di società in cui contiamo solo se produciamo (non dimentichiamo che il 70% di chi è tornato al lavoro il 4 maggio sono uomini) e se consumiamo, dove l’insegnamento è sostituibile con una video-lezione.
In cinque giorni, dal 9 al 14 marzo, è stato ideato dal Governo e dalle parti sociali un Protocollo che, con soluzioni tecniche e organizzative, ha consentito alle aziende di operare in sicurezza nei settori più disparati.
In tre interi mesi nessuna task force è stata in grado di pensare, ideare, proporre soluzioni al problema di come riaprire le scuole in sicurezza, né ipotizzare un’apertura delle scuole diversa da “part-time” verticali o lezioni pasticcio in cui metà classe è in presenza e metà a distanza. Il Ministero dell’Istruzione non può continuare ad affermare che la didattica a distanza stia funzionando solo perché, dal punto di vista tecnologico, gli strumenti danno degli esiti più o meno positivi, così sentendosi totalmente affrancato dall’onere di far ricominciare le lezioni in presenza dell’intera classe. Questo significa non comprendere il significato ed il valore della didattica e l’importanza degli studenti quali persone e non soltanto come “contenitori” di nozioni.
Siamo il paese che può costruire Reparti ospedalieri in due settimane, ma non vuole a mettere in campo soluzioni adeguate, avendo davanti ben 4 mesi di tempo.
Questo è inaccettabile.
Infine, anche se non per importanza, ripartire dalle scuole sarebbe stato un segnale forte rispetto alla consapevolezza che il diritto all’istruzione, non possa essere garantito ad oltranza accontentandosi delle soluzioni trovate quando si era in piena crisi sanitaria.
La scuola è assolutamente un altro mondo. E’ il mondo della socialità, delle competenze che si acquisiscono con lo stare insieme, della relazione e della interazione. La scuola accade quando, da una battuta di una ragazza o di un bambino, l’insegnante intercetta la curiosità di un singolo e coglie un’occasione preziosa per attrarre l’attenzione dell’intero gruppo classe, facendo diventare l’argomento spiegato un fatto personale. La scuola educa, ovvero tira fuori da tutte e tutti ciò che saranno.
Se questa crisi può essere un’occasione per accelerare processi di svecchiamento della nostra società, ripensare alle politiche di conciliazione con l’obiettivo di ridurre veramente le diseguaglianze di genere è una sfida da cogliere per fare un balzo di qualità nella realizzazione dei diritti delle donne.
Non ci possiamo permettere che la Scuola venga dimenticata.
#noncelopossiamopermettere
Associazione Casa delle donne contro la violenza Onlus
Associazione Centro documentazione donna
Associazione Differenza Maternità
Associazione Gruppo Donne e Giustizia
Associazione Donne nel Mondo UDI Modena
La Casa delle donne di Modena
Strada Vaciglio Nord 6 –
41125 Modena
info@lacasadelledonnemodena.it
Codice Fiscale 94201170365
Breaking free: discriminiamo la violenza, non le persone. Testimonianze per
l’uguaglianza di genere e una società inclusiva.
Per costruire un clima di pace è necessario rendere la cittadinanza consapevole dei risvolti che possono prendere odio e violenza. Per questo verranno portate alla luce le storie delle donne vittime di violenze e dei loro bambini nati durante il conflitto degli anni novanta nell’ex-Jugoslavia. Ad oggi, in Bosnia Erzegovina queste categorie si trovano in condizioni di grande vulnerabilità sociale poiché vittime di pregiudizi e discriminazioni riguardo al loro passato fortemente stigmatizzato.
La mostra fotografica che verrà organizzata racconterà proprio la storia di questi bambini dimenticati dalla guerra che chiedono di essere accettati come membri di eguale dignità all’interno della società.
Creare uno spazio per mostrarsi è una grande possibilità per realtà così difficili e spesso sconosciute per arrivare al grande pubblico, come è successo nel 2018 quando è stato assegnato il premio nobel per la pace a Nadia Murad sopravvissuta alla schiavitù e alle violenze sessuali da parte dei militanti dello Stato islamico. La possibilità di poter portare testimonianze dirette sul territorio di Reggio Emilia sarà, per la cittadinanza, un’occasione per conoscere e far si che non si dimentichi il devastante conflitto dei Balcani; ma anche un’occasione di riflessione sulla propria realtà sociale, sui meccanismi che possono innescare violenza, discriminazione e ineguaglianza.
Queste iniziative si collocano a metà tra il Premio Nobel per la pace a Nadia Murad e Denis Mukwege per la loro lotta contro gli stupri di guerra (2018) e il Venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica (luglio 2020) e il Venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica (luglio 2020).
Anteprima in italia
REGGIO EMILIA
Mostra fotografica “BREAKING FREE”
Inaugurazione Breaking Free 26 ottobre ore 17,30
Introduce Andrea Cortesi (Iscos Emilia Romagna) con interventi di Ajna Jusic (ForgottenChildren of War) e Luca Leone (giornalista e scrittore)
VOCI E STORIE DEI BAMBINI NATI DALLA GUERRA
dal 26.10 al 25.11- sabato e domenica 16.30-19.30
Reggio Emilia 2019
ORGANIZZATA DA:
ISCOS Emilia Romagna e Forgotten Children of War
PHOTO.ARTIST:
Sakher Almonem
PATROCINIO :
Comune di Reggio Emilia
OSPITATA DA:
Binario 49 – via Turri
IN COLLABORAZIONE CON:
CISL, Cooperativa sociale Madre Teresa, Associazione MirniMost, Fondazione E35, Casa Editrice Infinito Edizioni, Regione Emilia Romagna
ENTRATA LIBERA
ISCOS Emilia Romagna ha in attivo diversi progetti in Bosnia Erzegovina e proprio nella loro realizzazione ISCOS ha creato forti legami di collaborazione con alcune delle associazioni della società civile bosniaca. Il paesi è stato profondamente segnato dal conflitto del ‘92-’95 durante il quale sono stati compiuti gravi crimini di guerra a danno delle fasce più vulnerabili della popolazione come le donne e le minoranze etniche. Ad oggi in Bosnia ci sono ancora forti discriminazioni, e a testimonianza di ciò c’è l’associazione Forgotten Children of War fondata dai ragazzi nati a causa della guerra, figli di donne vittime di stupri, che combattono per il riconoscimento dei loro diritti a lungo ignorati. La mostra Breaking Free è inspirata proprio a loro, alle loro storie, alle loro madri, alle loro battaglie che sono rimaste per troppo tempo silenziose e invisibili. Le loro voci unite denunciano la realtà dei fatti, contro una comunità stigmatizzante e discriminante, per il raggiungimento di una società pacifica ed inclusiva.
Seconda parte della chiusura estiva del blog dedicata al ricordo del passato di certo patriarcato molesto.
Sentiti e visti i bollori dell’estate e, soprattutto, avvertite con molestia certe nostalgie mai sopite di schiavismi fisici e intellettuali mascherate da nostalgie di “buon tempi passati”, il Golem femmina chiude la sua stagione ricordando che l’ispirazione prima del blog è passare passioni, seguita dal credo assoluto che la dignità non sia un istituto politico variabile ma il diritto umano assoluto. E che la reiterazione di certe pruderie autoritarie che circondano quest’estate spaventa, ma non zittisce le coscienze. Quelle femministe dovranno tenere alta l’attenzione a partire da settembre e dal decreto Pillon, se il governo non cadrà. A questa ipotesi di norma, già trattata negli scorsi post del blog, dedichiamo le foto trovate in rete dei decaloghi di accettazione sociale delle “buone mogli” degli anni appena trascorsi, come letteratura di “infelicità umana e sociale”.
Riapriremo il blog nella prima settimana di settembre. Passando la passione più grande, la poesia. Ma promettiamo di ritornare anche a provare a (di)segnare sul blog la passione sociale ed etica che popola ancora la maggior parte di questo Paese.
Buona poesia a tutti*, Buona (r)esistenza a tutt*, buon Ferragosto felice.
Sentiti e visti i bollori dell’estate e, soprattutto, avvertite con molestia certe nostalgie mai sopite di schiavismi fisici e intellettuali mascherate da nostalgie di “buon tempi passati”, il Golem femmina chiude la sua stagione ricordando che l’ispirazione prima del blog è passare passioni, seguita dal credo assoluto che la dignità non sia un istituto politico variabile ma il diritto umano assoluto. E che la reiterazione di certe pruderie autoritarie che circondano quest’estate spaventa, ma non zittisce le coscienze. Spaventa anche l’accidia di chi non vuole ricordare il passato come luogo di coercizione femminile, o meglio di una parte di esso, quello che scontava la peggiore delle pene, la povertà economica e\o sociale. A cui veniva destinato il peggiore degli inferni maschili, la “casa del piacere”, “la casa dei dindini dorati” o altri delicati nomi per indicare il bordello. Le regole erano semplici. Tutto concesso, ma “i servizi” dovevano pagare in anticipo. Non fosse mai che una delle “donne” crepasse durante uno stupro di gruppo (permesso e disponibile ma solo a richiesta) e i clienti volessero risparmiare sul “servizio”. Gli originali manifesti li troverete in vendita per qualche dollaro su e-bay, dove Madame Dora o Madame Josie possono essere acquistati con tutta tranquillità nel loro delirio di tempo andato. Noi qui, facciamo invece resistenza e memoria.
SABATO 6 LUGLIO, a partire dalle H 17, al CIRCOLO anarchico BERNERI, in via Don Minzoni 1/A, a Reggio Emilia, il comitato cittadino di Non Una Di meno, terrà un’ ASSEMBLEA APERTA, e chiunque vorrà, potrà partecipare ai temi cruciali del movimento, che sono stati al centro delle iniziative e azioni di lotta nei quasi tre anni di vita del nostro movimento.
“Dalla presentazione di Non Una Di Meno – scrive il comitato cittadino – e della sua breve ma già significativa storia, alle questioni del contrasto alla violenza di genere come fenomeno sistemico, pervasivo e strutturale, dello sciopero femminista globale con l’astensione rivoluzionaria dal lavoro di produzione e di riproduzione sociale, dell’intersezionalità, dell’antisessismo e antirazzismo, del transfemminismo. Dai tentativi di annullare le conquiste più significative dei movimenti femministi sul piano della legislazione e delle norme, stravolgendo le leggi in vigore e cercando di imporre trappole legislative e normative per favorire il ritorno alla famiglia e alla società patriarcale (DDL Pillon, mozioni e odg sull’interruzione volontaria di gravidanza e sull’obiezione di coscienza presentati in diversi Consigli comunali in tutta Italia, Emilia Romagna compresa…), al tema della transnazionalità del movimento e delle lotte condotte in tantissimi Paesi nel mondo con obiettivi e modalità comuni. Temi importanti e impegnativi, da approfondire e condividere con altre soggettività convergenti in vista della lunga e intensa stagione di lotta che ci attende dopo l’estate, quando saremo chiamate a dispiegare al massimo la nostra potenza trasformatrice”.
L’Equal Pay Day è un’iniziativa europea per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla disparità di retribuzione tra uomini e donne. Equal pay, la giusta paga. Martedì 10 aprile è la nuova data in cui il mondo ricorda a tutti noi che le donne guadagnano di meno degli uomini, la giornata in cui l’Europa (e non solo) ricorda l’iniquità della differenza salariale fra donne e uomini. Ogni anno, l’Equal Pay Day, il giorno della giusta paga, è determinato sul calendario dalla differenza dei giorni in più che servono ad una donna per riuscire a guadagnare tanto quanto un suo collega uomo nell’anno precedente. Di anno in anno, la data si è allargata sempre più sul calendario, finendo ormai ad essere celebrata in primavera avanzata.
Quest’anno il focus dell’European Equal Pay Day è dedicato al divario pensionistico (pension gap) delle donne. Il divario fra quello che le donne e gli uomini ricevono quando finalmente raggiungono l’età pensionistica è del 39%. In particolare, il divario pensionistico italiano si fissa intorno al 37.1 %, in una media che l’avvicina agli altri Paesi dell’aria mediterranea (la Francia ha il 33%, la Spagna ha il 35.1, mentre il Portogallo raggiunge il 29.9) ma l’allontana da quella scandinava, dove si trovano i divari minori, sotto l’11%.
La cifra del 37.1 % è la punta finale dell’iceberg immobile, fatto di trattamenti economici sfavorevoli che accompagnano le donne italiane lungo tutto il cammino lavorativo.
Disparità di trattamento economico che, ricordiamolo, non potrebbe né dovrebbe esistere nel Paese, come sancito dall’articolo 37 della Costituzione indicante che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” .
Ed è proprio la “parità di lavoro” che necessita di sorveglianza e monitoraggio.
In primis, quando essa viene inficiata dalle scappatoie funzionali delle disparità di livelli contrattuali, dai premi di produzioni dispensati senza contrattazione collettiva e dai premi “ab persona” che possono differenziare non poco la quantità e la qualità salariale fra lavoratori e lavoratrici.
Quanti sono ancora i premi di produzione, di obiettivo, di risultato etc etc, che premiano la presenza o specificatamente la quantità numerica della presenza al posto della qualità produttiva del lavoro? Basta pensare a come la maternità venga contata “in sottrazione” nei luoghi di lavoro.
Altro uso diffuso di “normalità sociale “, soprattutto per alcune tipologie di lavoro in cui la conciliazione dei tempi vita e lavoro è negata da miopi politiche datoriali, è il ricorso al part-time. Il part time è la norma principe non scritta delle donne dopo l’arrivo di un figlio o di una figlia, dopo la presa in atto di un carico di cura familiare che va a sopperire a quelle mancanze di welfare sociale, ed altre disparità di genere che incidono sfavorevolmente sul tessuto carrieristico ed economico del percorso lavorativo, per approdare alle soglie della pensione, alla deriva economica. La carriera, intesa come percorso meritocratico giustamente retribuito, è il luogo di un’altra sottrazione, che viene indicata sotto l’analogia del “soffitto di cristallo”. L’ascensione in verticale della carriera fino ai suoi vertici, con conseguente ed equa retribuzione contributiva, si dimostra un’utopia, un gap, tutta al femminile.
L’azione positiva di maggior incisione sul fenomeno è stata la legge Golfo-Mosca per l’equilibrio del genere, applicata in quei lavori in cui lo Stato fa da committente, ma ricordiamo che la norma citata ha un effetto scadenzato e che la data del 2023 non è così lontana nel tempo. Per allora, ci si augura che il cambiamento culturale in ottica di genere possa essere stato completato nel nostro Paese. Ma a tutt’oggi, è cambiata solo la data dell’Equal Pay Day, che si è spostata, nuovamente, in avanti.
Fai clic per accedere a costituzione.pdf
Art. 37 della Costituzione. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parita`di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore
Il #metoo apre l’anno nuovo con la dichiarazione di una vecchia gloria del cinema europeo e mondiale, Brigitte Bardot, che sul Paris Match dichiara, a proposito dello scandalo Weinstein che : “Bisogna distinguere tra le denunce delle donne in generale e quelle delle attrici. La maggior parte delle accuse di queste ultime sono ipocrite e ridicole. Ci sono molte attrici che fanno le civette con i produttori per ottenere un ruolo . E poi vengono a raccontare che sono state molestate”. Per poi aggiungere: “Ho sempre trovato affascinante che mi dicessero che ero bella o che avevo un bel “sederino”. Questo tipo di complimenti sono piacevoli».
Prendiamo atto che secondo un certo tipo di sguardo femminile, le attrici non possano essere tutelate dalle molestie e aggressioni di sfondo sessuale. Che sia giudizio facile (né scritto né sancito) che un certo maschilismo prenda uso ed appoggio da parte sia di taluni produttori predatori che di qualche donna “attricetta”, a cui una gran pacca sul sedere e altro ancora, sia d’obbligo e faccia solo un gran piacere. Questo giudizio potrebbe forse spiegare l’odio contro Asia Argento che si è scatenato da taluni noti e tante sconosciutissime che hanno intasano pagine dei social e lasciato commenti al vetriolio nei giornali on line. Potebbe spiegarsi anche l’arroganza di certe prese di posizioni contro le molestie. Niente di nuovo sotto il sole italiano ed internazionale, si finirebbe per pensare: quella stessa luce spettrale spesso illumina le lingue che commentano a bassa voce “che tutto sommato, se una ragazza che indossa una minigonna per strada viene stuprata, non si deve gridare allo scandalo”. Che se un datore di lavoro ti getta il viso sul suo pene non c’è niente di male, anzi quella donna dovrebbe ringraziare i santi perché c’è la fila di disoccupate che cercano lavoro e lei invece il lavoro ce l’ha. Che se un cliente di un’azienda (cooperativa, ente pubblico etc etc) ogni volta che arriva ti venga alle spalle non certo per guardare quello che scrivi al computer, si debba sorridere e compiacere perché il cliente ha sempre ragione e porta soldi e se l’impiegata\la commessa\laragioniera\la buyer internazionale\non è compiacente, si danneggia l’azienda (la cooperativa, l’ente pubblico, etc etc).
Un modus operandi, validato dalle basse alle alte sfere, altrimenti non potrebbe accadere che un giudice del Consiglio di Stato, tal Francesco Bellomo, avrebbe obbligato le allieve della sua scuola privata di formazione per magistrati, “Diritto e Scienza”, a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi a spillo e trucco marcato, pretendendo anche che non fossero sposate. Un’imposizione fatta in virtù della legge non scritta dei predatori impuniti. Brigitte Bardot è un problema dello stato francese, ma Bellomo è un problema delle donne italiane, e scusate il campanilismo. Un servitore dello Stato il cui stipendio lo pagano le donne di questo Paese con i loro contributi mensili tolti nelle buste paga, se lavoratrici dipendenti oppure nelle altre forme contributive del lavoro autonomo. A questo proposito, le nostre parlamentari potrebbero ideare un disegno di legge che preveda il risarcimento economico a questi “infedeli servitori dello Stato” che andasse ai centri antiviolenza o alle associazioni che si occupano di genere. Ricordate il marito della Mussolini , tal Floriani, che andava a prostitute minorenni durante il suo turno di lavoro come dirigente di Trenitalia? E’ stato licenziato per assenza ingiustificata sul luogo di lavoro? Chissà. Certo, Brigitte Bardot (e prima di lei, quasi in comunione di pensiero, Catherine Deveuve), non ha paragone di fama rispetto a Bellomo. E allora ritorniamo a ragione sul proclama della libertà delle pacche sui sederi femminili della Bardot. Spetterebbe (forse) a degli specialisti della personalità aiutare una giovane Brigitte con l’autostima di sé che si alza a suon di ammiccamenti e toccatine veloci da qualunque parte arrivino, che poi nel tempo si tramuti in compiacimento nell’attacco verbale a tutta una categoria lavorativa, a cui, tra l’altro, vi si appartiene. Anche se si è stati “Brigitte Bardot”, il giudizio sulla propria vita passa comunque attraverso i sentimenti e le azioni. Il tempo che si muove e invecchia, potrebbe lasciare saggezza e empatia, ad esempio. E il #metoo è una buona possibilità di tempo nuovo, di tempo che porti, o riporti, i sentimenti e il rispetto come valori di comunicazione fra uomo e donna, liberandola dalla violenza e dall’aggressione sessuale. Brigitte Bardot ha sprecato un’occasione per consegnare uno sguardo intergenerazionale di comprensione e insegnamento. Ma ricordiamo chi è oggi Brigitte Bardot. Come scrive “Vanity fair”, l’attrice è “Diventata un’anziana signora sciupata, icona razzista del Fronte Nazionale”. Il sito Noglobs.or da più informazioni: “Ricordiamo che Brigitte Bardot é sposata con un militante del Front National, che sostiene Marine Lepen alle elezioni presidenziali, e che è stata condannata 5 volte per odio razziale e omofobia”.
Odio razziale è una gran brutta parola, signora Bardot. Che tu sia un’anziana “sciupata” (che mancanza di stile, Vanity Fair!) o un’anziana meno sciupata ma sconosciuta, l’odio razziale è ancora punibile e indecente in una società civile, che può migliorare indifferibilmente la qualità dei rapporti fra i diversi generi che la compongono, donne e uomini, uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini. Lo può fare anche ragionando sul complesso, (molto complesso) hashtag “metoo”. Senza semplificazioni indecenti come quello bardotiniano della pacca sul sedere alle civette. L’hashtag “metoo” non è un’incongruenza delle donne, un’indiscrezione da salotto, una moda femminista passeggera, un noioso femminismo 4.0. E’ un’occasione di muoversi a sdegno sulla persistenza dell’approvazione delle aggressioni sessuali nel terzo millennio dell’umanità. Non va tritato e servito come ultima moda; non va lasciato privo di discussione sociale e politica. La violenza è inaccettabile in tutte le forme, e va prevenuta sempre. E pure punita (vivaddio!) come ogni atto contro la persona giudicato e sanzionato dai codici legislativi. Il prossimo governo italiano, dovrebbe metterci mano, visto che sono ben tre le proposte di legge che si occuperanno di contrasto alle molestie e alla violenza di genere (1); leggi già presentate ma ancora da assegnare e che lasciano ben sperare che nel carosello degli scontri e sconti sulle violenze a sfondo sessuale si fermi la sarabanda e si scenda tutti e tutte giù. Anche se il nuovo fondo è un ghiaccio sottile, su cui alcuni vogliono ancora scivolare, basti pensare alle pericolosissime boutade degli ultimi giorni sulla riapertura delle case chiuse. Anche qui c’è una donna a validarne la proposta. L’avvocata Giulia Bongiorno, palermitana doc, responsabile del progetto “Doppia Difesa”, è salita sul carro della Lega e benedice le modernissime idee lenoni del suo leader, confidando che: “Sulle case chiuse serve una regolamentazione, basta con il caos. Le prostitute consapevoli devono pagare le tasse”. Magari le stesse tasse che formano lo stipendio di Bellomo. No, niente da fare. La prostituzione è una vergogna non un lavoro. Chi è povera e priva di mezzi deve essere aiutata a trovare un lavoro produttivo e dignitoso, non vendere pezzi del proprio corpo, signora avvocata. La prostituta consapevole è un’immagine ancora più avvilente della pacca sul sedere avvizzito della Bardot. Continuiamo a seguire la sorte che prenderà #metoo, non affondiamoci dentro.
1. Disposizioni per il contrasto della violenza di genere, anche perpetrata con l’abuso del processo.
Introduzione degli articoli 609-ter.1 e 609-ter.2 del codice penale, in materia di molestie sessuali, e altre disposizioni per il contrasto delle medesime nell’ambito lavorativo.
Disposizioni per la tutela della dignità e della libertà della persona contro le molestie sessuali nei luoghi di lavoro.
fonti in rete:
https://www.quotidiano.net/politica/giulia-bongiorno-1.3670955/amp
href=”https://www.vanityfair.it/people/mondo/2018/01/19/brigitte-bardot-molestie-metoo-critiche-attrici-intervista-foto”>
https://www.vanityfair.it/people/mondo/2018/01/19/brigitte-bardot-molestie-metoo-critiche-attrici-intervista-foto
http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/france/11051530/Brigitte-Bardot-calls-Marine-Le-Pen-modern-Joan-of-Arc.html
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_gennaio_09/bellomo-strano-algoritmo-per-lasciare-fidanzati-sfigati-2d62e2b6-f57a-11e7-b250-16cc66648122.shtml
https://parlamento17.openpolis.it/singolo_atto/94010
https://parlamento17.openpolis.it/singolo_atto/92592″>
Sono stanca del mio collega, che sparla di me, e della strada che mi molesta,
nego tutte le condizioni e sono stanca anche di negare
Wafaa Lamrani
A poche ore dalla data ufficiale della 18° Giornata internazionale contro la violenza di genere e di tutti i convegni e dibattiti intorno ad essa. A poche ore dalla presentazione dei dati dai centri antiviolenza e da altre istituzioni simili che conteranno le morte ammazzate e quelle che per fortuna l’hanno scampata, seppure peste e pestate; a poche ore dalla presentazione di una delle piattaforme femministe forse più attese, quella di Non una di meno, che nella sua ambizione dichiara di aver scritto “..un piano (che) domanda a ciascun@ di posizionarsi, ognun@ a partire da sé, di prendere parte a un processo di trasformazione radicale della società, della cultura, dell’economia, delle relazioni, dell’educazione, per costruire una società libera dalla violenza maschile e di genere”. Poche ore ancora e la grammatica imperfetta della violenza verrà passata “ufficialmente” con il rosso del sangue e il blu della speranza, per lavorare a correggere la stortura. Per generare e rigenerare pensieri e azioni. “Per promuovere un mondo nuovo – scriveva dieci anni fa Luce Irigaray – c’è bisogno di pensiero. Non basta fermarsi a qualche slogan concernente il potere, la soggettività femminile, la politica del “fra donne” eccetera. Si tratta di riflettere su quale contenuto oggettivo si mette dietro gli slogan e di verificare se questo contenuto si possa condividere e come”. La condivisione del pensiero non dovrebbe essere omogenea ma eterogena , con tutta l’enorme difficoltà che questo spostamento epocale di necessità ed educazione al rispetto civile porta con se. Eppure le epoche sono convenzioni umane, e come tutte le umane cose, sono perfette e imperfette insieme, nella loro capacità di trasformazione e mutamento continuo. Si può lavorare sulla metamorfosi delle relazioni, e si deve lavorare tutti e tutte insieme, non arrendendosi, ognuno con i mezzi e gli strumenti culturali, lavorativi, empatici di cui dispone. Nessuno è un’isola, recitava Donne, ma sarebbe pericoloso credere di essere tutti e tutte unite in un unico continente indifferenziato. Ognuno è diverso, e la sua diversità è preziosa. E’ il rispetto di questa diversità come diritto, che bisogna interiorizzare e metabolizzare come pensiero di tempo nuovo. L’arte viene chiamata spesso in campo, come se non fosse essa stessa campo e tempo. Sorte comune con l’espressione “cultura” , che viene brandita ad arma di offesa o di auspicio. Ma l’arte produce cultura, e ha in se elementi salvifici nell’immisurabilità della sua ispirazione vitale. Ecco perché, ancora una volta, questo piccolo blog sceglie l’arte poetica per posizionarsi nel flusso del cambiamento che queste ore di vigilia si chiede a tutte e tutti, perché i versi sono i mezzi che esso può mettere a disposizione nell’affrontare la necessità di riscrivere il proprio tempo.
Nda. Ringrazio Nadia Chiaverini e Moussia Fantoli per i loro testi. Ringrazio di cuore l’attenzione e la cura che Gabriella Gianfelici e Simonetta Filippi continuano a donare al blog.
No desire to open my mouth
(Nessuna voglia di parlare)
di Nadia Herawi Anjuman
No desire to open my mouth
What should I sing of…?
Me, who is hated by life,
No difference to sing or not to sing.
Why should I talk of sweetness?
When I feel bitterness.
Oh, the oppressors feast
Knocked my mouth.
I have no companion in life.
Who can I be sweet for?
No difference to say, to laugh,
To die, to be.
Me and my strained solitude.
With sorrow and sadness.
I was borne for nothingness.
My mouth should be sealed.
Oh my heart, you know it is spring.
And time to celebrate.
What should I do with a trapped wing?
Which does not let me fly.
I have been silent for too long,
But I never forget the melody,
Since every moment I whisper.
The songs from my heart,
Reminding myself of
A day I will break the cage.
Fly from This solitude
And sing like a melancholic.
I am not a weak poplar tree
To be shaken By any wind.
I am an Afghan woman,
Makes sense to moan always.
Nessuna voglia di parlare.
(traduzione di Cristina Contilli
dal libro Poesie e traduzioni
2002-2008)
Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento
Io sono una donna afgana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.
Traduzione dal farsi in italiano di Amir e Sashinka Gorguinpour.
In memoria della poeta afgana, massacrata di botte a venticinque anni
dal marito, colpevole di aver osato acclamare i suoi versi in pubblico,
nel novembre del 2005)
***
Usa le mie ossa come speroni
da American Dreams
di Sapphire (Ramona Lofton)
usa le mie ossa come speroni,
intagliati, scolpiti, appuntiti.
lasciali essere coltelli nel cuore
o rasoi
che staccano testicoli.
lascia che impalino i nostri uccisori
e che cavino i loro occhi.
e quando la terra sanguinerà libera della loro presenza,
usa le mie ossa per costruire una casa
dove potremo guarire
e disimparare il patriarcato.
una casa dove mio padre
non potrà entrare, a meno che
non venga per il perdono.
alla signora CB
di Nadia Chiaverini
ho deciso / oggi mi sfratto da sola
scarico la zavorra dalla mia mongolfiera
e prendo il volo indocile
lascio il branco m’inarco
la sento la brezza leggera del vento
taglio i fili del bucato
mi sporgo dal terrazzo barcollo
la testa pesa più del corpo
mi capovolgo
e finalmente cado
senza più radici affondo
oggi non è giorno di lutto
nell’assenza del confine
divergenti sintonie
ossessione d’ impotenza / è il paradosso
*
Limitarsi alle domande :
niente risposte
neppure attenuate o camuffate
E’ già troppo / Tutto si stinge
come i lividi sulla pelle
color bluette, in grigioverde
poi trasmuta in giallo ocra
Distopia urbana
Bambina mia
di Gabriella Gianfelici
Bambina mia
violentata:
ti sto cercando.
Bambina mia
non hai più le tue mutande
una mano l’ha strappate via
e tira adesso la tua gonna
e tu soffochi
di paura.
Sei gelida
sei sasso
sei vomito.
Il tuo sguardo fissa il pavimento
o il soffitto
non vuoi vedere
non vuoi sentire
non hai più voce
La lingua è bloccata.
anche la saliva non c’è più.
Sei un niente che vaga nel mondo
uno sgorbio con una tristezza infinita
una solitudine che mangia lacrime.
Vuoi morire
non puoi lottare
ma ti chiedi perché
non sei come le altre bambine
e allora non rinunci.
Sigilli la bocca
non puoi parlare
l’urlo l’ha mangiato già tua madre
sei in pieno deserto.
L’ombra che ti cammina accanto
era la bambina di prima
lei poteva giocare e parlare.
Come t’hanno ridotta
sei paralizzata
stare alla finestra e vedere la vita
solo questo ti è rimasto.
Hai asciugato tutto.
Hai chiuso tutto dentro di te.
Ancora questo fiato sulle spalle
il carnefice non è soddisfatto
è la tua condanna al mondo
gli altri ridono bevono passeggiano
tu rimani preda
e ti chiedi
perché non riesci a morire.
Denti gengive bocca
che continuate a sanguinare
a bagnare questa bambina
che volteggia come una meteora
nel buio del nulla.
Voi siete stati i miei amici notturni
insieme
al sudore dei miei capelli.
Mi domandavano sempre:
“Perché non parli?”
Non rispondevo: ero morta.
Ti rincorro grassa bambina
dal silenzio ingrassata
ma non rientro in te
ancora mi specchio in un’altra
e non posso urlare.
Vivo come se
non fossi stata bambina:
sono nata a dodici anni
oppure speravo di esserlo.
Le miserie le oscenità le bugie
il mio terrore
la vostra indifferenza
sola mi avete lasciata
in balia del mostro.
Sola
come in una pozzanghera nera
scendevo tutte le mattine a disperarmi
e col viso gonfio e fisso
andavo a scuola.
Gli occhi che mi guardavano
sembravano sapessero
ma nulla potevano fare.
Il mio corpo non c’era più
a farmi compagnia solo una bicicletta
con cui correvo correvo correvo
immaginando di poter fuggire.
Perché non sei fuggita prima
bambina mia
perché non hai urlato con quella bocca
non hai pianto da quegli occhi
non sei impazzita dallo schifo?
Peggio è stato macerare tutto dentro.
Peggio è stato non aiutarti.
Come posso volermi bene
come posso ritrovarti
accarezzarti
avvicinarmi a te.
T’ho gettata nello sfondo della mia vita
eppure sei qui
con la tua carne di marmo
i tuoi seni strusciati
le tue mani sporcate.
Difenditi
ti supplicavo dentro
ma l’orrore ti bloccava.
Cresciuta senza appoggi
le carezze di mia nonna
scendevano tenere
ma ancora
non sapevo parlare.
Aspettami bambina
sto cercando di darti la mano
per farti rientrare in me
e piangere insieme.
Piegata in un angolo senza forze
senza conoscenza del mondo
le tue vene scorrevano lacrime
le tue piaghe sempre più purulente.
Imploravi la vita e la morte insieme
soffocavi e risorgevi tutte le volte.
sempre il tuo corpo
era da un’altra parte.
Specchiarsi era impossibile
Il vestito nuovo una tortura
cosa sarebbe servito amarti di più?
Giaceva questa storia dentro di te
dolore silente che niente scopriva.
Piangiamo bambina mia
strozziamoci insieme nel ricordo di ieri
forse potremo ancora amarci
senza timore.
Ricucire gli strappi
unire i lembi del nostro passato
consolarci assieme
in questo dolore da consumare.
Ti cerco ancora
non ti trovo ancora
aspettami ancora.
***
MUTAZIONE 1
di Armanda Guiducci
Com’eri trepido, chiaro, appassionato.
Di una tenerezza quasi
E senza riserve nella gioia
di quell’unica cosa che eravamo.
Lentamente, una forza
ha corrotto i tuoi tratti. Ha disegnato
un altro uomo in te: virile,
ma anche aspro, reticente, irato
verso il tuo cuore stesso e me – che ami
controvoglia, di nascosto, come un furto
o un caro errore, un lapsus reiterato.