Lasciate i condizionali, i sensi di colpa, i bicchieri mezzi vuoti, i fossi alle strade.
Liberatevi delle insonnie, delle prepotenze, degli spazi sempre stretti .
Lasciate squillare i telefoni, arrestate i videocitofoni, gelate i forni.
Liberatevi dalle ruote da spostare, dalle incurie delle voci, dalle vite ignoranti.
Vestitevi di imperativi, di infiorescenze, di pause, di iperboli.
Scendete in piazza, tornate in viaggio, scivolate in amore.
Perdonatevi.
Si può arrivare al cielo da qualunque luogo si parta, lo hanno già scritto.
Siate felici.
Buon Otto Marzo.
Woman’s Day 2017. Parliamo finalmente dei soldi delle donne? Il tabù profondo della differenza retributiva a parità di lavoro fra uomo e donna, il gender gap, è cosi insito nel nostro Paese che l’Italia quest’anno ha peggiorato la sua posizione nell’indicatore mondiale di disparità di trattamento fra uomo e donna, che viene redatto dal Word Economic Forum, scendendo ancora nella sua classifica, dal quarantunesimo posto al cinquantesimo. Scorrendo i dati, le due voci che catapultano le donne del Belpaese verso il medioevo retributivo sono la partecipazione e le opportunità al lavoro e della differenza di salario per lavoro similare (equal pay for work of equal value). Quest’ultima voce ci vede alla centoventisettesimo posto nel mondo, e pare che dopo di noi non ce ne siano così tanti di Paesi a finire la lista. La fotografia di tutta la carriera lavorativa e salariale è presto visibile, con le spalle al muro di una vita complicata da carichi di cura e attività domestica che continuano a gravare sulle donne, finanche dopo la pensione, quando si sostiene la cura di nipoti e familiari fin quando la propria salute lo permetta. La Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, in una relazione rilasciata nel settembre 2016, ha scritto: “che, rispetto agli uomini, le donne sono maggiormente soggette a interrompere più volte la carriera e a dover lavorare a tempo parziale, dal momento che in casa la responsabilità delle cure alla persona incombe loro in maniera sproporzionata” e “ che il divario salariale tra uomini e donne persiste ancora nell’UE e nel 2014 era pari al 16,3 %, principalmente a causa di fenomeni di discriminazione e segregazione, che si traducono in un numero maggiore di donne nei settori in cui il livello di retribuzione è inferiore rispetto ad altri per lo più occupati da uomini”. A parte qualche isola felice, in zona scandinava e polare, dove welfare e contribuzione sono ripartiti in maniera efficace, il gender gap è il nemico comune di tutte le donne. Chidi King, direttrice del Dipartimento Eguaglianza dell’ITUC, il raggruppamento internazionale dei sindacati, lo scorso febbraio ha spiegato che: “Le recenti stime mondiali alla luce di aumenti progressivi del (gender) gap, ci dicono che una cesura significativa di questo fenomeno non sarà possibile fino al 2069. Se non agiamo ora, i cambiamenti nel mondo del lavoro, incluso l’automazione e l’economia on-demanding, potrebbero rendere il divario ancora più insanabile”. Previsione dunque di almeno due o tre generazioni di donne che dovranno continuare a lavorare più del dovuto, in casa e fuori casa, per raggiungere una stabilità nelle proprie risorse economiche. Tornando all’oggi, anche quando le lavoratrici vanno in pensione lo spettro della povertà non si allontana. Le donne vivono statisticamente più a lungo ma la classificazione non ha mai preso in carico la qualità di questa lunga vita, Ancora nella relazione UE si legge che “il divario pensionistico di genere (il cosiddetto “gender gap in pensions”), che può essere definito come la differenza tra la pensione media percepita (al lordo dell’imposizione fiscale) dalle donne e quella percepita dagli uomini, nel 2012 era del 38% per la fascia di età dei 65 anni e oltre e che che le donne godono di una copertura pensionistica inferiore a quella degli uomini e che sono sovrarappresentate nelle categorie dei pensionati più poveri e sottorappresentate nelle categorie più ricche”. Ricchi e povere. Una lunga catena di ingiustizia sociale. Sulle spalle delle donne. E finora le statistiche hanno affrontato le casistiche delle lavoratrici regolari, perché il fenomeno del precariato e il ritorno del lavoro in nero getterebbe ancor più nel pozzo la vita retributiva delle donne italiane. Eppure tutto accade intorno a noi , non solo platealmente nella compilazione della busta paga, ma anche nelle scelte “politiche” di organizzazione del lavoro che spesso ignorano l’uguaglianza di genere. Comincerei a chiedere dei comitati o degli uffici per le pari opportunità nelle aziende: ci sono e stanno funzionando? Come mai nei premi aziendali, per quelle aziende virtuose che ancora hanno questo istituto contributivo, si premia ancora e solo la presenza del lavoratore\trice nel posto di lavoro, ignorando i bisogni di cura e maternità che la legge tutela? Come mai la conciliazione dei tempi del lavoro continua ad essere la richiesta urgente e cronica delle lavoratrici agli sportelli delle federazioni sindacali? Come mai nei premi aziendali, per quelle aziende virtuose che ancora hanno questo istituto contributivo, si premia ancora e solo la presenza del lavoratore nel posto di lavoro, ignorando i bisogni di cura e maternità che la legge tutela? Le donne che fanno figli, ricordiamolo una volta a tutti e tutte, svolgono un lavoro sociale che permette di continuare la vita stessa della società, non possono essere “punite” economicamente negli accordi per i premi di produzione perché assenti. E’ un’ingiustizia sociale non solo economica. E continuando a leggere il sociale, a che punto siamo con le “quote rosa”? Le quote rosa che dovrebbero naturalmente esaurirsi nel 2022 (secondo l’utopica speranza della Golfo Mosca) hanno portato dei cambiamenti di sostanza nelle prospettive economiche e lavorative delle donne, o sono state delle corse a tappare dei buchi neri per quelle società in Borsa e statali che non avevano ancora formato e dato spazio alla managerialità femminile? E quanto hanno pagato quelle manager che sono riuscite a sfondare “il tetto di cristallo”? E quelle manager hanno poi rinvestito la loro esperienza in azioni positive verso il proprio genere per ampliare e difendere le dipendenti della loro azienda dal più alto livello retributivo al più basso? Questo Woman’s Day 2017 deve tenere conto di tutti questi punti di domanda oltre il suo giorno. “Le donne sono il cuore dell’economia europea”. E il cuore è un unico corpo di due grandi parti che battono all’unisono. Lo dimentichiamo spesso, perse nel vissuto complicato e stancante dell’economia degli ultimi dieci (lunghissimi) anni. E l’hashtag lanciato dai sindacati europei, l’#herpayrise, per ridurre il gender gap deve essere sostenuto fino alla sua risoluzione. Non basterà (quando accadrà e speriamo il più presto possibile) una diminuzione di qualche punto percentuale in una classifica di numeri stilati su una carta a dirci che si può costruire una nuova società di inclusione e diritti ugualmente distribuiti. Dovremmo tenerne anche la memoria storica per impedire che l’ingiustizia accada di nuovo.
riferimenti in rete
https://www.etuc.org/press/she-needs-pay-rise-herpayrise#.WL8oQTvhDIU
A metà tra testo biografico e testo storico, il libro Camicette Bianche di Ester Rizzo nasce dall’esigenza dell’autrice di ridare memoria e posto storico alle vittime dell’incendio del Triangle Waist Company del 1911. La tragedia del Triangle Waist, il 25 marzo 1911 segna il punto di non ritorno del capitalismo patriarcale delle fabbriche americane, quando bruciarono vive 126 operaie nel rogo della fabbrica di camice per signora della Triangle Shirtwaist Company di New York di proprietà di Max Blanck e Isaac Harris. Tradizione popolare, vuole questo rogo l’origine del Woman’s Day, la Giornata dedicata “alle rivendicazioni dell’emancipazione delle donne e per l’acquisizione dei loro diritti di lavoratrici in varie parti del mondo, dagli Usa alla Russia, all’incirca dal 1907 in poi”. Più precisamente” l’’8 marzo – ricorda la scrittrice – in realtà è una data convenzionale che ricorda vari eventi tutti collegati fra loro”. Tutti concentrati nei primi anni dello scorso secolo. Erano anni in cui non esistevano datori di lavoro, ricordiamolo, ma padroni. Anni in cui si poteva anche affermare che “Non è un problema se bruciano gli operai, in fondo sono solo un sacco di bestiame” (ct, pag 85). Nel libro, la lunga lista delle vittime del Triangle Waist è compilata con attenzione e precisione nelle sue ultime pagine. E’ una delle sue parti più dolorose: contare quante operaie avessero solo quattordici o quindici anni quando bruciarono vive perché nel loro edificio le poche uscite erano bloccate e le loro postazioni erano create in modo di non poter comunicare fra di loro. Quasi tutte loro erano italiane e russe. Alcune erano di seconda generazione, come oggi si usa indicare. Ma molte di loro avevano affrontato il lungo viaggio oceanico dall’Italia a Ellis Island da pochi anni, con il libretto rosso da emigranti. I nomi, le storie della fabbrica delle camicette bianche, sono stati tenacemente ricercati dall’autrice, che le ha accompagnate a noi nei loro giorni americani insieme a quello che ne fu dei loro figli, dei padri e delle madri, vittime “indirette della tragedia”. Ne riporto una, quella della madre di “Sonia Wisotsky, Esther, che dopo che la figlia diciassettenne morì, non dormì più per tutta la vita in un letto. Sistemava tre sedie allineate e lì passava l’intera notte. Era la punizione che si infliggeva per aver permesso alla figlia, sei mesi prima, di lasciare la Russia ed andare in America. Così racconta Esther Mosak, pronipote di Sonia” (ct, pag 69)
Il processo ai due titolari della fabbrica, accusati di omicidio colposo, durò appena ventitré giorni, “con centotre testimoni, la maggior parte della difesa ed in tanti ebbero il dubbio che alcuni fossero stati pagati per affermare il falso… Harris e Blanck furono assolti da una giuria di soli uomini, che arrivò al verdetto in sole due ore. Quando uscirono dal tribunale furono circondati da una folla che piangendo gridava: “Ridateci le nostre mogli, le nostre figlie, le nostre sorelle. Dov’è andata a finire la giustizia?” . Un unico coro di voci si alzò: “Omicidio! Omicidio! Omicidio! “. (ct. pag 72).
Il racconto del libro continua offrendo un panorama diverso, quello degli interventi legislativi che seguirono il rogo delle operaie.
“Comunque, quelle donne non morirono invano. Il 14 ottobre 1911 venne istituita la “Società Americana degli ingegneri per la Sicurezza. Nei quattro anni successivi si approvarono otto nuove leggi che furono inserite nel codice del lavoro, poi altre venticinque ed infine altre tre nel 1914. Inoltre, tale leggi stabilirono orari limitati di lavoro per donne e bambini”. (ct, pag 75). Il seguito della storia è fatto di conquiste e diritti, di donne che guidano cambiamenti legislativi, a cominciare da quelle all’interno del Trade Union League, i sindacati dei lavoratori, che pochi anni prima del rogo, nel 1903, aveva creato la costola di genere, il WTUL, il Woman’s Trade Union League, aprendosi così alle istanze delle lavoratrici.
Al suo vertice, Rose Schneiderman, classe 1882, nata in Polonia anche lei emigrata come la maggior parte delle operaie del Triangle W. “Sin da giovanissima, nel 1903, iniziò a lottare per migliorare la vita dei lavoratori e grazie a lei le donne poterono entrare a far parte dei sindacati” (ct, pag 76). Il discorso di Rose alla commemorazione delle vittime del rogo tenutosi il 2 aprile, esattamente una settimana dopo, prese la parola in un discorso di fuoco e lacrime, paragonando le fabbriche e i loro macchinari a moderni strumenti di tortura per poveri”. (http://trianglefire.ilr.cornell.edu/primary/testimonials/ootss_RoseSchneiderman.html)
E’ ricordata inoltre Frances Perkins (per un refuso la indicano come Francis? nda) , che divenne la prima Segretaria del Lavoro nella storia degli Usa, in quota Democratica, durante i difficili anni della Depressione. Durante il mandato, per sua volontà si rafforzarono i diritti dei lavoratori e lavoratrici, con le tutele contro gli incidenti sul lavoro, l’introduzione del salario minimo, l’indennità di disoccupazione e il divieto del lavoro infantile. Citiamo anche Anne Morgan, figlia di uno dei potenti typhoon dell’epoca, avvocata anch’essa come la Perkins, che non esitò a schierarsi a fianco delle rivendicazioni sindacali derivate dal rogo del Triangle W. L’ultima figura restituita dal libro è quella di Rose Rosenfeld Freedman, un’operaia sopravvissuta al rogo del 25 aprile, che per tutta la vita restò fedele al ricordo dell’accaduto, battendosi per la sicurezza sui luoghi di lavoro e sostenendo le lotte e le rivendicazioni sindacali delle lavoratrici. Come integrazione delle lotte femministe dell’epoca, laddove il libro si ferma, si potrebbe anche ricordare Jane Addams, che in termini di azioni politiche e sociali delle politiche di genere è una delle figure più rilevanti del femminismo americano, leader del movimento riformista americano, ed Elizabeth Gurley Flynn, la Giovanna d’Arco dell’Est, che in quegli anni era presente a New York nell’Industrial Workers of the World, il sindacato radicale americano, che organizzò buona parte degli scioperi del 1912 per la rivendicazione della giornata lavorativa di otto ore e che subì repressioni brutali finanche con l’impiccagione dei propri componenti. Lottò a lungo per la tutela legale dei sindacalisti e dei militanti perseguitati per le idee politiche. (R. Lupinacci).
Il libro Camicette Bianche, sarà presentato a Modena questo giovedì, nell’ambito della rassegna Lottomarzo, organizzato dai sindacati confederali e dall’Udi territoriale.
riferimenti fotografici in rete
Portatevi un rossetto. Il 10 marzo si va in piazza per celebrare il 70° anniversario del voto delle donne (attivo e passivo) in questo Paese. Due giorni prima ci sarà stata la 94° giornata internazionale della donna. Sono grandi numeri, finalmente. Si va verso la stabilizzazione sociale delle richieste di diritti civili della minoranza pensante, quella che non si è mai arresa alla diseguaglianza di umanità nelle classi sociali. Ancora oggi, le statistiche dei osservatori nazionali e internazionali presentano i danni alla qualità della vita delle donne. Gli ultimi dati sono apparsi lo scorso gennaio nel rapporto della sezione italiana dell’European Anti Poverty Network (EAPN) che fa la solita fotografia monocromatica delle differenze di genere: “Il 64% degli uomini in età attiva è occupato, questa percentuale scende al 46,6% nel caso delle donne. Se un pensionato percepisce in media 14.728 euro all’anno, una pensionata ne riceve 8.964. Inoltre, quasi il 50% delle donne lascia il lavoro alla nascita del primo figlio e solo il 18% dei bambini fino a tre anni frequenta un nido d’infanzia pubblico. Il 31,9% delle donne e il 7,9% degli uomini lavorano part-time. Se le donne dedicano 36 ore settimanali al lavoro domestico, gli uomini ne dedicano solamente 14. Paragonata al resto d’Europa, l’Italia è il paese con la più alta percentuale di famiglie monoreddito”.
Indici mancanti sono quanto tempo hanno sottratto le donne nella cura della loro salute, non solo a causa della diminuzione di reddito e\o aumento delle tariffe sanitarie, ma anche della difficoltà di trovare tempo per se stesse al di fuori della strangolante spirale lavoro con straordinario obbligato\famiglia\cura degli anziani\peggiorati tempi dei servizi della città\etc. La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, ma alla Costituente dimenticaronodi specificare “del lavoro che rispetta il lavoratore e gli consente di vivere decorosamente tutte le sue età, con metodo di misura e comparazione del benessere e della dignità di ogni cittadino e cittadina”. Queste dovrebbero essere le pari opportunità dell’esistenza da porre oggi sotto la luce della primavera marzolina dell’otto marzo. Intanto, prepariamo il rossetto per il giorno 10, c’è un flash mob da colorare.
dal libro
Il 1 febbraio 1945 un decreto di Umberto di Savoia, luogotenente del re, su proposta di De Gasperi-Togliatti, riconosce alle donne il diritto di voto. E’ la conclusione di una battaglia che dura da mezzo secolo: ancora prima del 1900 si erano infatti formati attivissimi comitati pro suffragio e l’argomento del voto alle done era occasione di accesi dibattiti sui periodici più diffusi. Generalmente contrari erano gli uomini (Compreso Benedetto Croce), con qualche eccezione come lo scrittore Marco Praga e l’economista Giustino Fortunato; ma contrarie erano molte donne, anche tra le “teste pensanti” come la docente universitaria Rina Monti e la sindacalista Argentina Altobelli.
Nel 1907 una commissione tutta maschile, nominata da Giolitti, aveva dato parere negativo sul voto alle donne, anche su quello amministrtivo di cui avevano goduto, prima dell’Unità d’Italia, le donne del Lombardo-Veneto e del Granducato di Toscana. Commentò sarcastica Anna Kuliscioff: “per poter votare il cittadino italiano deve prendere una sola precauzione: nascere maschio”. nel 1919 la Camera approvò a larga maggioranza il suffragio femminile, ma la legislatura si chiuse in anticipo, prima che il Senato potesse votare la legge. Quando due anni dopo si tornò a discuterne il clima era completamente cambiato: il fascismo era alle port e prevedeva per le donne solo raduni, aiuto nella propaganda e opere caricative.
Le italiane votano così per la prima volta il 2 giugno 1946. “Stringiamo le schede come biglietti d’amore”, scrive la giornalista Anna Garofalo. “Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio delle donne timorose di stancarsi nelle lunghe file davanti ai seggi. E molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomo e donna hanno un tono diverso, alla pari”