Fino al 26 maggio, alla Biennale Internazionale Donna di Trieste, viene proposto il lavoro di Caterina Gerardi “COME VEDI TI PENSO”, un itinerario di parole e immagini ispiratato ed elaborato sulle statue femminili del Cimitero Monumentale di Milano. Quaranta foto e un cortometraggio della fotografa pugliese in dialogo con trenta voci di donne, protagoniste autorevoli del presente, “libere di inventare e di seguire la propria ispirazione nell’incontro casuale con un simulacro con un’idea di morte”
La mostra è accompagnata dal volume omonimo, edito da Milella, che incorpora, insieme a 30 foto analogiche in bianco e nero scattate da Caterina Gerardi, dei testi brevi di 30 autrici che accompagnano le immagini. Fra le firme, Barbara Alberti (di cui riportiamo il racconto per gentile concessione di Caterina Gerardi), Renate Siebert, Fiorella Cagnoni, Cristina Morini, Françoise Collin, Lidia Ravera, Ilderosa Laudisa, Margherita Hack, Maria Cristina Crespo, Rosella Simone e Joumana Haddad, per citarne alcune.
Come scrive Chiara Zamboni nell’introduzione, “… questo libro vive del controcanto tra le immagini e i testi che le accompagnano, pagine di riflessione soggettiva sull’immagine assegnata, scritte da pensatrici che hanno attraversato il femminismo”.
Una sorta di Spoon River al femminile, un affascinante racconto per parole e immagini ispirato dal desiderio di dar voce – intensa, autentica, viva – a quelle figure di donne di pietra del primo Novecento, attraverso la meditazione di donne di oggi sulla vita e la morte, alla ricerca di una più intima verità narrata sotto forma della novella, del sogno, della riflessione, della poesia, del mistero.
“C’è poco pensiero della morte oggi. – scrive Chiara Zamboni – Certo ildibattito politico e culturale si è concentrato a lungo in questo ultimo decennio sull’eutanasia, sul testamento biologico, sulla “buona morte”, ma si è trattato di definire i diritti dei singoli nei confronti delle norme dello stato, di una discussione pubblica sul limite tra vivente e non vivente, sul diritto dovere di tenere in vita o meno una persona. Non si è ragionato sul senso individuale del morire, né sull’immaginazione che ne possiamo avere e che si sta modificando. Mancano narrazioni soggettive del significato per sé della morte. “In questo senso – ci indica la lettura critica di Marinilde Giannandrea – il libro va nella direzione di aprire uno spiraglio sull’immaginazione femminile della morte”.
Nel “… Monumentale di Milano … avviene, come spesso accade nell’opera di Caterina – continua Marinilde Giannandrea – un incontro fortuito con un affollato universo di pietra. Cammina lungo i viali e fotografa in un rigoroso e luminoso bianco e nero le statue di donne (tante, il libro presenta solo una piccola selezione) ricavandone l’idea di stereotipi femminili condannati ad abitare lo spazio della morte. Stereotipi consolidati dell’arte funeraria che si declinano spesso in visioni dolenti o melodrammatiche e che oppongono all’immagine eroica e intellettuale dell’uomo quella malinconica e piangente della donna. Donne scolpite da uomini per le quali anche la natura fisica dei corpi risponde a precisi canoni culturali ed estetici, relegate a ruoli di madri vestali, portatrici di una pietas che le connette indissolubilmente allo spazio del compianto e della cura. Collocabili cronologicamente tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento (il Monumentale fu realizzato nel 1866 da Carlo Maciachini), queste figure rappresentano un universo borghese nel quale si dipana una semiotica del gesto che attinge al microcosmo familiare e domestico”.
“Tuttavia il lavoro di Caterina – secondo Giannandrea – non ci pone solo problemi connessi all’immagine sociale della donna ma si addentra nel territorio dell’arte al femminile e delle sue molteplici e complesse declinazioni contemporanee. Dagli impulsi politici delle suffragette, alle discipline che oggi costituiscono il nucleo degli Studi di Genere, passando attraverso le diverse forme di femminismo e le conquiste sociali del Novecento, si è costruita in questo primo decennio del XXI secolo una diversa visione del mondo, una nuova posizione simbolica delle donne e le artiste sono passate progressivamente dalla periferia al centro, dalla militanza al riconoscimento. Il loro percorso di affermazione appare per analogia simile a quello dell’arte contemporanea e così come avviene per i linguaggi del presente, l’affermazione ha seguito un movimento caotico, difficile da circoscrivere, impossibile da descrivere. Se oggi la presenza femminile nell’arte è ormai consolidata, la questione che si pone è quella dell’incontro tra le opere di genere e il pubblico e il problema diventa quello connesso alla loro capacità di incidere nelle reazioni chi osserva. È in questo spazio di relazione che si colloca Come vedi ti penso e l’immagine diventa il medium di una comunicazione a volte metaforica, a volte diretta che si stabilisce tra le singole figure e le autrici dei testi. «Noi non siamo circondati dalla realtà ma dall’effetto che il reale produce attraverso la simulazione e i segni» — ci ricorda Rosalind Krauss —e in questo caso accade che la fotografia faccia risuonare il silenzioso universo di pietra nelle emozioni, nelle riflessioni e nelle memorie di chi lo guarda moltiplicandone esponenzialmente i significati in modo che ogni figura, in equilibrio tra silenzio e parola, diventi il segno di un’architettura intima e segreta”.
Riferimenti e contatti
da Come vedi ti penso
Gigli
di Barbara Alberti
Gigli, gigli, gigli…. perché? io amavo le dalie che tentano alla vita
strano quel fiore freddo che sporca le mani di giallo simbolo della purezza
e che purezza si chiami che io non conobbi la gioia se non all’inizio,
l’estate che venne in campagna Guido, il cugino, figlio dello zio povero, con una barba appena spuntata che già pungeva quando per penitenza gli davo un bacio davanti a tutti, non piovve mai quell’anno e giocammo, giocammo…
L’ultimo giorno nel viavai dei bagagli ci promettemmo l’un l’altro, per sempre.
Al ritorno mio padre disse che non stava bene continuare a vederlo, “ la sua famiglia non è all’altezza”. Mi scelse un fidanzato.
Era un vecchio come lui, finto paterno, lascivo, un manigoldo arricchito di modi leziosi un Casanova ritinto, ma fosse stato anche Apollo in persona io ero di un altro.
Uscìi di nascosto, accecata dal nevischio, corsi da Guido scavalcando lo sguardo della portinaia, beffardo, salii i sette piani fino alla stanza da studente – un tavolo un letto e tanto freddo che dalle bocche uscivano nuvole.
“Prendimi” gli dissi, “ così ci faranno sposare” e lui “No, sono più forti di noi, ci separeranno lo stesso”. Io lo pregai prima con le lacrime poi in ginocchio ma lui temeva mio padre temeva la sua povertà, lui temeva.
“Non posso, io ti rispetto”, è questo il rispetto, consegnarmi?
Tornai a piedi sotto la neve, lentamente, lasciando scivolare il cappuccio per prenderla tutta- speravo nella febbre.
Ebbi molto di più, una polmonite mi portò via. Morìi per non sposarmi. Morìi delusa, mai amata, fra un libertino e un vigliacco e mio padre ai piedi della croce, il centurione con la lancia.
Quando ero già sotto terra e i due vecchi trafficavano per la tomba con idee grandiose tirando sul prezzo, arrivò lo scultore dei morti, un uomo timido, che non mi aveva mai conosciuta. Mio padre chiedeva gigli, tanti gigli. L’artista obbedì al committente ma li fece come una foresta che assedia, e la veste si impiglia quasi artigliata dai gigli, mio padre.
Scolpì sotto il tessuto un corpo più che nudo, fianchi, seni, ginocchio, mi ritrasse come in un’offerta d’amore. L’amore che ci fu tra noi, io morta lui vivo per disegnarmi quel volto dove c’è tutta la mia inimicizia, la scontentezza e il disprezzo, e il rancore, e la ciocca che sfugge, minimo eterno segno che non mi avevano vinta. Nulla dimenticò del mio desiderio. Qualcuno mi amò, finalmente.
Il giglio ve lo ridò, non mi serve. Prendilo, padre, non vale più come simbolo: ora sono di un uomo, sono sposa; mi si addice la rosa.
Note biografiche- B.A. è nata in Umbria, fra angeli e diavoli. E’ grata alla pessima educazione cattolica cui deve la sua ispirazione. Il primo libro è “Memorie malvage” (Marsilio 1976), l’ultimo “Non mi vendere, mamma” (Nottetempo, 2016)
Fa istanza di silenzio
di vita e di fonazione in quel nome amato
sia per lei e sarà, la dormiente
matrice del buio e dell’inverno
(Meth Sambiase, dall’antologia A che punto è la notte, Cfr edizioni)
foto tratta dal reportage Silent Beauty
di Antonella Monzoni
“E’ il trapasso, è il mistero, il rivolgere questioni per un’altra possible vita ” (Antonella Monzoni su WSF)