Solo il due aprile di quest’anno le donne raggiungeranno la parità di stipendio del 2018 dei loro colleghi maschi. E’ il fenomeno del gender pay, che ci dice come le lavoratrici di tutto il mondo ci impieghino mesi in più per raggiungere la parità salariale di genere. Ed ogni anno il divario (l’ingiusto divario) viene misurato in tutto il mondo con indicatori stabiliti che dimostrano quanto ci si allontani, nazione per nazione, dalla parità auspicata.
Anche l’Unione Europea misura il gender employment gap e stabilisce il suo giorno di gender gap europeo (qust’anno è stato il 27 febbraio) facendo la media statistica dei suoi Paesi membri. L’ultima tabella riassuntiva è stata pubblicata il sette marzo, e si riferisce alla forza lavoro dai 20 ai 64 anni. L’Italia è riuscita a peggiorare il suo divario. Siamo ad un passo dall’ultimo posto in tutta Europa per la parità retributiva fra i generi. Pochi punti ancora e tocchiamo il fondo, che in questa classifica tocca a Malta.
Ecco la tabella:
(fonte in rete:
https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/-/EDN-20190307-1
Dieci anni di crisi hanno notevolmente inciso sulla qualità del lavoro femminile, frantumandolo nei rivoli del part time involontario e del part time imposto per carichi di cura, laddove un’ organizzazione del lavoro inflessibile si dimostri inconciliabile con i tempi di vita delle famiglie, senza poi dimenticare di segnare l’uso e abuso dei contratti di lavoro a tempo determinato.
Ecco la fotografia degli ultimi due anni del mercato del lavoro italiano censiti dal” XX rapporto del lavoro e della contrattazione collettiva” del Cnel del febbraio scorso:
“Nel complesso, rispetto ai livelli pre-crisi, mancano ancora un milione e100mila occupati se si riportano le ore lavorate a unità di lavoro equivalenti full time.
La quantità di posizioni a tempo parziale createsi in una fase di debolezza del mercato del lavoro rivela come la riduzione degli orari per occupato abbia rappresentato una delle modalità con cui il sistema produttivo si è riorganizzato come risposta alla crisi.
L’aumento del part time è legato anche alla forte riduzione che si è verificata in questi anni nel numero di persone inattive; l’aumento dell’offerta di lavoro (soprattutto femminile) si è tradotto sia in un aumento della disoccupazione che in un aumento del lavoro di carattere “marginale”.
Su questo punto si innesta il tema della qualità del lavoro. La dimensione quantitativa della domanda di lavoro si accosta a cambiamenti di rilievo nella composizione in termini di stabilità dei posti di lavoro, livelli salariali, prospettive di carriera e più in generale tutti quegli elementi che concorrono a determinare il grado di soddisfazione del lavoratore e che non possono essere colti semplicemente attraverso il passaggio dallo stato di disoccupato o inattivo a quello di occupato. Da questo punto di vista, l’aspetto più significativo della fase recente è rappresentato dal fatto che la crescita degli occupati si è rivelata particolarmente intensa per la componente dei contratti a tempo determinato”.
Lavoro a tempo determinato per inoccupate giovani e non giovani, part time involontario per chi rientra dalla maternità o per strutturazioni aziendali forzate o per carichi di cura senza il sollievo di un walfare sociale o aziendale, si trasformano in povertà economica che viene addirittura a raddoppiare nel momento della pensione, quando la scarsità di contributi riduce la fonte di sostentamento al di sotto della dignità economica. A questi dati si aggiunge anche il divario del gender pension pay (si definisce internazionalmente così il divario pensionistico fra uomo e donna) che tocca in Italia il 32 % in meno. Qualificare e riqualificare la dignità del salario femminile è un’esigenza improrogabile alla luce di questi dati, eppure, apparentemente, questo problema non è prioritario nelle agende di progettazione economica e politica. Si allontana continuamente l’attenzione verso dei provvedimenti che possano invertire la rotta (a picco sulla povertà), come se il destino economico delle donne non fosse il destino economico di metà del Paese. Come se mettere in campo dei provvedimenti di giustizia economica per le lavoratrici non fosse un dovere democratico. Lavoratrici che incidono sia sul Prodotto Interno Lordo sia sul “Prodotto Sociale Lordo”, un indicatore immaginario in cui si presta lavoro continuativo senza scopo di lucro ma con finalità di sussitenza e di continuità di specie, perchè, a conti fatti, se le donne fermassero il loro lavoro di cura, la stessa società come la finora l’abbiamo intesa, finirebbe.
Un primo esempio presto fatto e messo in evidenza: l’attacco continuo alla maternità. Nonostante la legge sulla maternità sia una delle piu’ protettive d’Europa, il ritorno in azienda dopo l’astensione facoltativa è un percorso ad ostacoli. Un altro esempio rigurda alcuni criteri per definire i premi di produzione: è inconcepibile dovere ascoltare ancora oggi proposte di premi di produzione legati alla presenza dei lavoratori in azienda e non agli obiettivi di produttività da raggiungere. Se tutte le lavoratrici rinunciassero alla maternità per sottomettersi a degli standar di obiettivi legati solo alla presenza, il Paese si spopolerebbe ancor di piu’ di quanto si sta desertificando di figli in questi decenni. Inoltre, legare ancora la presenza e non la produttività o l’obiettivo nel premi aziendali o nelle progressioni di lavoro, sarebbe un modo per penalizzare quelle lavoratrice costrette a ricorrere allo strumento dei permessi della legge 104/92, già in forte pena per le loro difficili condizioni di conciliazione vita, affetti bisognosi di cura, lavoro.
La penultima posizione dell’Italia nella tabella europea del gender pay è lî a ricordarci che nulla è stato fatto per risalire la cima anche quest’anno. Eppure, il primo articolo della Costituzione recita chiaramente che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, non sulle ingiustizie sociali.
riferimenti in rete
https://www.pay-equity.org/day.html
https://www.cnel.it/Documenti/Rapporti