Meno male che ritornano. I figli sono “pezzi di cuori” italiani.

Quando è arrivata dietro le vetrine, non sono restata sorpresa. Tre passi dopo, mi era di fronte, quasi imbarazzata.
Ho parlato per prima.
– Sei ritornata , vero? I bambini, vero?-
Lei non ha preso fiato rispondendomi di si.
– Si, si. Il piccolo stava male. Anche lo psicologo non riusciva ad aiutarlo. La grande? Non te ne parlo nemmeno. Io lì ho preso un piccolo diploma. Ho detto a mio marito “torniamo, vediamo che succede”. Se mi accettano il diploma, potrò fare le domande al Comune o negli asili privati. Speriamo in bene. Ora siamo da mia sorella.  Speriamo bene, speriamo. Come stai? Quanto tempo… –
Speriamo. Intanto A. e la sua famiglia sono tornati nel quartiere, sono tornati in città, sono tornati in Italia.
Il “piccolo” è ormai un preadolescente. Lo hanno riscritto alle elementari ( – Sono grande, mi spiega, faccio la quinta!- ).
La figlia maggiore è stata riscritta alle medie.
– Il “piccolo” era quello che soffriva di più – mi ridice A.
Piangeva e ripeteva alla madre, che piangeva anche lei di nascosto, che era italiano, non era albanese; che lui era italiano e non voleva che essere italiano.
Ma il lavoro per il capofamiglia era sempre meno e la famiglia deve vivere dove si può comprare il pane. – In Albania, la vita non è così cara, si può resistere e tirare avanti, e, soprattutto, la famiglia in Albania può darti una mano senza farti vergognare – .
Ma tirare avanti, non è vivere. Lo accetti e te ne fai una ragione quando sei “grande”, quando ti ripeti che la famiglia è dovunque siano i tuoi affetti e vivi ogni malinconia in imposta solitudine. Se non hai l’età dei sacrifici adulti e non vuoi fartene ragione, la malinconia è compagna ingrata e ingiusta, come il dolore, e ti consuma e la tua sofferenza morde a morte il cuore di tua madre e tuo padre. Rende infelici tutti. E si decide di rischiare il tutto per tutto e ricominciare da sottozero perché a zero si era smesso di provare.
Perché se i figli vogliono essere felici e italiani, si dovrà ritornare, perché i figli sono la patria dei genitori. Ritornare almeno fino a quando tutti i sacrifici saranno ancora possibili da immaginare dietro la porta della speranza.
A. con i suoi figli, è tornata.
Avevo scritto di lei quando era andata via. La conoscevo come ci si conosce bene in un piccolo quartiere reggiano, dove di pomeriggio si va a far prendere aria buona ai figli. I bambini nei parchi e nei giardinetti sono sempre più pochi, sostituiti da decine di cani al guinzaglio che corrono nei prati dalla mattina presto alla sera tardi e suo figlio “il piccolo” mi inteneriva, così magro e cocciuto e simpatico. Avevo scritto di lei prima che questo Paese perdesse la bussola dell’empatia. Prima che questo Paese cominciasse a chiudersi dietro le cesoie dei pronomi plurali “noi (non siamo) voi”. Sperando che il dolore di chi è costretto dalla crisi a tornare indietro, portandosi via figli che hanno come patria quella in cui vogliono continuare a vivere, servisse a ricordare come siamo tutti uniti dalla ricerca di una quotidianità serena, noi tutti che non usiamo mai il sostantivo femminilile “felicità” per controriformistico pudore. Avevo scritto di lei e del suo “piccolo”, testardo, italianissimo figlio, al tempo del loro viaggio all’indietro quando il mio di figlio era ancora alle scuole medie. Pensavo al “piccolo”, quando la campanella del mio suonava e vedevo uno sciame di capelli corti e lunghi, rasati, increstati, perfino sfumati esplodere sull’acciottolato del grande cortile invaso da un arcobaleno di zaini eastpack e bluse felpate con il cappucci, tutti così simili, tutti così felici di tornare a casa. Chi sommerso, chi salvato. Chi felice, chi impossibilitato ad esserlo.
Per tornare umani, per non assecondare le istanze di differenza ed indifferenza che qualcuno vorrebbe portare dietro il nostro sano istinto di fratellanza (e sorellanza), si dovrebbe aspettare un figlio o una figlia all’uscita di una scuola media. E lasciarsi travolgere dall’energia vitale degli stormi di confusionari ragazzini saltellanti e promettersi e imporsi di dar loro futuro, appoggio e credito, e altre pazienze di cui avranno bisogno quando cresceranno, quando su “tutte” le loro spalle si appoggerà il futuro di questo confusionario Paese. Atlanti pavoni maschi, ingegnosi, fallibili e certosini, timidi e sfrontati, come lo sono e lo saranno sempre le generazioni degli umani esseri viventi. Dentro alla prossima generazione ci saranno i figli di A. che sono italiani e che vogliono essere felici. Speriamo che non cambino mai idea. Bentornati.